L’Italia di cartongesso dove la corruzione assomiglia al cancro

Il suo romanzo che ha vinto il Premio Calvino 2013 racconta con coraggio lo sfascio morale del Veneto
Di Alessandro Mezzena Lona
BRUNI TRIESTE 28 12 05 FESTIVAL CANZ TRIESTINA:lorenzo Pilat
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di Alessandro Mezzena Lona

Il famoso agente letterario non gli aveva dato grandi speranze. «Mi creda, il suo libro è impubblicabile», era stata la sentenza. Per fortuna, Francesco Maino non si è arreso. Lo scrittore di Motta di Livenza, che di professione fa l’avvocato a San Donà del Piave, ha provato a mandarlo al Premio Calvino, che l’ha proclamato vincitore dell’edizione 2013 proprio con quel romanzo impubblicabile. Poi, “Cartongesso” è uscito nei Supercoralli Einaudi, la prestigiosa collana della casa editrice torinese.

E adesso? Semplice: con quel romanzo-invettiva, che descrive il Veneto guidato dalla «classe dirigente più ignorante, bifolca, analfabeta e scaltra e, nel contempo, più affamata d’Europa», Maino si è trovato all’improvviso al centro dell’attenzione. Dopo la pioggia di arresti, che ha trascinato nel fango anche il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, qualcuno si è ricordato delle pagine in cui scrive: «Dicono che il sindaco abbia avuto la bis-campagna elettorale assicurata col grano saraceno, il mangime di Bigotti Venerino, il quale doveva così sdebitarsi per il . piacere ricevuto, cioè l’incarico per la costruzione, a tempo di record, del capannone adibito a palazzo di giustizia».

Dalle pagine di “Cartongesso” (pagg. 241, euro 19,50) esce il ritratto di un Veneto prigioniero della smania di accumulare soldi, case, cibo, macchine, amanti. Affamato di un benessere esagerato, moltiplicato per mille, perfettamente inutile. Inquinato da un odio verso gli altri, soprattutto quelli che «vengono da fuori» e hanno la pelle scura, «che cammina come l’infezione, dalle caviglie alla bocca». Prototipo di un’Italia che sa benissimo quanto diffusa sia la corruzione, ma fa finta di non vedere. Per ignavia, per comodità.

Come Pier Paolo Pasolini negli anni Settanta, Maino non assolve nessuno. Perché se i politici, gli imprenditori, la classe dirigente è ormai indifendibile, neanche gli intellettuali, i moralisti, i cittadini qualunque, chi si sente indignato da quest’Italia dal cuore di tenebra, può illudersi di non far parte di questo apocalittico circo dei miracoli. E per raccontare verità che nessuno vuole ascoltare, in “Cartongesso” l’avvocato-scrittore usa una lingua meticcia, uno stile fluviale e libero, intrecciando un formicolio di storie. Fregandosene degli schemi narrativi che tanto piacciono ai santoni delle case editrici.

«Per motivi di lavoro, al Tar del Friuli Venezia Giulia sono quasi di casa - spiega Francesco Maino -. A Trieste, infatti, si discutono tutti i casi di diniego ai permessi di soggiorno. E siccome io assisto i cosiddetti extracomunitari, devo prendere spesso il treno. Mi sembra di fare un viaggio verso l’Oriente, come scriveva Paolo Rumiz nel suo bellissimo libro “È Oriente”, anche se sono su un semplice convoglio regionale».

Il prossimo libro lo ambienterà da queste parti?

«Adoro queste vecchie terre della Mitteleuropa. Vado spesso in vacanza a Lussino, l’Istria è nel mio cuore. Mi piacerebbe scrivere una storia che porti Italo Svevo nel nostro tempo. Trovo straordinaria la sua cocciutaggine, il voler essere riconosciuto scrittore contro tutti. Lui era troppo avanti».

In che senso?

«Aveva tutto contro di lui. Il nome Ettore Schmitz, l’essere ebreo, il fatto di parlare in triestino quando la letteratura si emozionava per l’italiano di Giovanni Papini. L’incontro con il rivoluzionario James Joyce, il lavoro in banca da impiegato fallito, il matrimonio con una donna ricca ma anche soffocante, l’ingresso nella ditta di famiglia. Era un uomo in bilico tra più mondi, tra scritture diverse. Ci ha lasciato libri molto intimi, eppure universali».

Uno scrittore fuori mercato, come lei?

«I suoi erano libri anarchici. Con una forte connotazione esistenziale. Oggi viviamo la dittatura della trama. Tutto dev’essere leggibile, semplice, comprensibile. Oggi la “Coscienza di Zeno” sarebbe impossibile».

Tanto che il suo “Cartongesso” era considerato impubblicabile...

«Non è tanto importante che cosa racconti, ma come lo racconti. Lo stile è la cifra della narrazione. Credo fosse Anton Cechov a dire: datemi un posacenere, ne farò un racconto. Il mio libro era considerato impubblicabile per tre motivi: troppo Veneto-centrico, politicamente scorretto e privo di trama. Quindi, poteva turbare il lettore».

E allora lei l’ha mandato al Premio Calvino?

«Mi sono consultato anche con un amico scrittore, Romolo Bugaro. E lui mi ha incoraggiato ad andare avanti. A me non interessa il successo. Però voglio che chi legge le mie cose riconosca in quelle pagine me stesso: Francesco Maino. Al di là delle regole del mercato: non accetto che il libro sia considerato un bene di consumo come il pollo arrosto».

Dopo la vittoria al Premio Calvino è stato difficile pubblicare con Einaudi?

«No, la loro proposta era quella che non potevo rifiutare. Come se la Juventus ti chiamasse a fare il terzino. Per me, è stata un’avventura memorabile. Mi hanno aiutato a migliorare ancora il libro. Sono saltate fuori altre ottanta pagine, una parte le ho scritte l’estate scorsa a Lussino».

Cartongesso è il simbolo...

«Di un mondo che sta smottando. Un materiale edile che simula qualcosa che non è. Una parete che, in realtà, è un falso. Mi è sembrato subito l’elemento paradigmatico del nostro sistema sociale. Che si basa su sentimenti vili, su amicizie esangui, su rapporti umani anemici».

Dopo quello che ha scritto non si sarà stupito della pioggia di arresti in Veneto...

«Pasolini diceva che bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome. La corruzione, l’intreccio di interessi stanno uccidendo il nostro Paese come fa il cancro con un corpo malato. Non possiamo fare finta di non sapere, di non vedere. Questo non è un malessere passeggero, è un tumore radicato in profondità».

Chi sono i colpevoli e chi le vittime?

«Il punto è proprio questo. Le cosiddette vittime di oggi sono quelle che, domani, si renderanno disponibili a prendere il posto dei colpevoli. Ripercorrendo i loro passi. Il Potere non fa sconti: ci divide tra soggiogati e soggiogatori. Punto. Si può usare la spranga per sottomettere qualcuno, oppure alzare una mano e votare dentro un consiglio d’amministrazione».

Ma c’è chi si indigna per il milione di euro versato a Giancarlo Galan, ai soldi per finanziare la campagna elettorale di Giorgio Orsoni. Ammesso che sia vero...

«Sì, ma la stessa persona che oggi si indigna, ieri li ha votati. Turandosi il naso. Perché spesso si sceglie un politico in base ai piccoli favori che potrà fare. In base al fatto che è amico di qualcuno e potrebbe tornare utile. Insomma, in Veneto, in Italia, siamo tutti colpevoli. Gli indignati sanno come gira il mondo, votano e fanno finta di non vedere».

Le regole le conosciamo, però...

«Faccio un esempio. La domenica. gli outlet sono aperti tutto il giorno. Il patriarca di Venezia tuona contro quest’abutudine. Perché le commesse-mamme quel giorno, dice lui, devono avere il tempo di andare a messa, di pranzare a casa con la famiglia. Eppure sa benissimo che, proprio di domenica, fuori dell’outlet ci sono 20mila macchine. Perché il richiamo dell’acquisto compulsivo è più forte anche della religione».

Vogliamo sempre di più, anche se non ci serve niente?

«Spendiamo, mangiamo, accumuliamo. Siamo, e cito ancora Pasolini, volgari demagoghi dalla fame insaziabile. Per questo scambiamo la corruzione per un malessere, e non per un cancro. Perché ci siamo dentro fino al collo, tutti. Siamo il prodotto preciso di un sistema che abbiamo accettato passivamente».

Il poeta Andrea Zanzotto ha scritto: «Vivere un mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità». È così?

«Il Nordest ha perso la sua tradizione. I suoi ideali sono stati divorati dalla smania di denaro, di accumulo. Queste sono le terre di Giacomo Matteotti, di Alcide De Gasperi. Ma le loro idee sono precipitate dentro un baratro».

A Trieste, oggi, viene ad ascoltare Lorenzo Pilat in concerto. Come mai?

«Me l’ha fatto scoprire un mio amico di Radio Birikina. Pilat ha scritto le canzoni più belle per il Clan di Celentano. Però, siccome è un puro, poi è rimasto in un angolino, un po’ dimenticato. Ascoltarlo mi commuove, spero sempre che la radio trasmetta qualche suo brano. Questa sera, alle 22, canterà al Parco di San Giovanni per la Festa della musica. E io non posso mancare».

alemezlo

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