Madre e figlio negli angoli bui

Show don’t tell, mostra e non dire, è la regola insegnata nelle buone scuole di scrittura. Mai nominare un sentimento, meglio piuttosto metterlo in scena in una trama invincibile di azioni. Una regola tutta americana, frutto di una cultura pragmatica e analitica, che ha influenzato mezzo secolo di narrativa. Siamo lettori esterofili, educati alla superiorità della letteratura americana teorizzata dai filosofi francesi, siamo cresciuti scambiando “Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso” per un manuale di scrittura: abbiamo abbracciato senza remore le regole di una narrativa da piano Marshall e ci siamo lasciati alle spalle la buona vecchia tradizione europea. Insofferenti alle lungaggini di Proust ne abbiamo perso l’ironia, Werther è stato abbandonato ai suoi dolori e Bovary giudicata svenevole. Mostra ma non dire, ed ecco perduta la possibilità di “dire” i sentimenti, di dare un nome all’inquietudine, allo struggimento. Ma trovare parole per ciò che sfugge al nostro impreciso sentire non è forse quello che chiediamo alla letteratura?
Per questo “Continuare”, il nuovo libro di Laurent Mauvignier (Feltrinelli, pp. 174, 16 euro) è una lettura da cui non vorremmo separarci mai, forse il romanzo più bello uscito in questo inizio 2018. In un mondo letterario che ostenta grandi ambizioni e trame scandalose, Mauvignier sceglie la direzione opposta. Prende due personaggi qualunque: una madre alle prese con il divorzio e un figlio adolescente senza desideri. Sybille e Samuel, da soli e con poca voglia di avere a che fare l’uno con l’altra. Ma quando Samuel viene arrestato per aver preso parte alla violenza dei suoi amici skinhead su una ragazza, Sybille si sveglia dal torpore. No, Samuel non finirà in collegio come vuole suo padre. Samuel deve riprendere contatto con la vita, lo devono riprendere tutti e due. Vende la casa di famiglia e partono per un viaggio a cavallo in Kirghizistan.
“Continuare” è il racconto di quel viaggio, ma è soprattutto il racconto di quello che accade a una madre e a un figlio quando rimangono soli in un luogo straniero, esposti alla rabbia e al proprio imbarazzante modo di amarsi. Mauvignier non ha paura di dire i sentimenti e trova parole per tutte le timidezze e le ritrosie che nemmeno sappiamo di avere. Un libro di neppure duecento pagine, eppure non c’è sentimento umano o variazione narrativa che non venga esplorata con un’intensità che lascia il lettore turbato, avvinto.
Inizia con delicatezza: l’alba di un freddo mattino di marzo, la foschia che lascia spazio a brandelli di rosa, la schiuma iridescente delle onde sulla battigia di una città di mare, una madre che non ha chiuso occhio tutta la notte e ora è in auto, nel parcheggio di un commissariato, e si fa coraggio prima di entrare a vedere suo figlio. Una scena che ci ricorda Marinne Limbres, la madre che nel bel romanzo di Maylis de Kerangal, “Riparare i viventi”, aspetta in auto prima di entrare in ospedale dove troverà il figlio in coma. Ma qui è solo l’inizio.
Nelle prime pagine i toni sono guardinghi: un adolescente si muove nelle stanze di casa con gli auricolari incollati alle orecchie e la madre fuma una sigaretta dopo l’altra perché non può accettare di vedere il proprio figlio diventare un delinquente, ma non sa cosa fare. Il tono però cambia presto. Decidono di partire. Sale la determinazione di Sybille, la rabbia di Samuel, il groppo d’odio per l’idea delirante di sua madre.
Il romanzo accelera. La delicatezza si fa brutale, a Bordeaux si sostituiscono montagne imperiose, territori di animali e spiriti. Non c’è più tempo per la passività, le difese adolescenziali, la musica nelle orecchie: qui ci sono lupi che fanno la posta a corpi feriti, pianure sotto i ghiacciai pronte a trasformarsi in trappole mortali. Qui una pistola può essere utile, ad avere il coraggio di usarla. Mauvignier non indietreggia di un passo e trova le parole per dire il terrore di un adolescente davanti al rischio di morire – Cazzo, mamma, sprofondiamo! Il rancore verso una madre incosciente di cui si vergogna, odia vederla come una donna in un mondo in cui lui non è più il centro. E poi arrivano le scene dal respiro aperto: i due tra schizzi d’acqua in un lago gelido e Samuel che sorride, come un figlio può sorridere alla madre, con pudore e una complicità che non ha bisogno di parole perché le contiene tutte e le oltrepassa.
«Lui, quello che vuole, è solo non provare più paura» dice Mauvignier. E allora questo romanzo, magnificamente tradotto da Yasmina Melaouah, diventa un romanzo che ci insegna a non avere paura, soprattutto degli altri, di quelli che sono diversi da noi, di una vita che ci chiama ma ci terrorizza. Ci dice che la paura esiste, così come esistono i nostri vergognosi angoli bui, e provare a cancellarli non serve a niente. Ma possiamo sempre trovare le parole per scendere là sotto, per capire e ascoltare. Parole che dicono il terrore di vederci riflessi nell’occhio di un cavallo agonizzante, ma anche la felicità stupefatta di una madre che guarda il figlio addormentato e vorrebbe toccargli il viso, trafitta d’amore per lui, come se si fosse ricordata di colpo che è possibile amare a un livello di vertigine. Mauvignier non ha paura di raccontare tutto questo, di raccontare la vita.
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