Magris: «Da mio padre ho imparato ad amare la fantasia e la realtà»

TRIESTE Una maestra di vita. Meglio: una compagna di viaggio. Però, a lasciarsi andare al richiamo dei ricordi, Claudio Magris ammette senza tentennamenti che, per lui, la Storia è stata ed è un amore totale. Passione nata negli anni dell’adolescenza, condivisa con i migliori amici e compagni di scuola al Liceo Dante. Ravvivata all’Università di Torino. Dove c’era un professore, il napoletano Walter Maturi, che raccontava i grandi fatti del passato con un pizzico di suspense. Interrompeva la lezione sul più bello, come nei vecchi sceneggiati televisivi. Così, il giorno dopo, gli studenti ritornavano puntualissimi. Per sapere come andava a finire.
Più dei libri, più dei professori, però, a indirizzarlo sulle vie della Storia, e della fantasia, è stato suo padre. «Amava molto la letteratura - racconta Claudio Magris -. Citava passi dei libri di Emilio Salgari a memoria, senza trascurare i grandi classici, i Greci, i Latini. Ma per lui la Storia rappresentava anche un voler partecipare al proprio tempo, alla realtà che si vive. Aveva quello che Benedetto Croce definiva “il senso della Storia”».
Da saggista, da narratore, Magris non ha mai rinnegato il suo vecchio amore. Tanto che la Storia si è presa un posto di prima fila nei suoi saggi e nei romanzi tutti, da “Illazioni su una sciabola” a “Un altro mare”, da “Alla cieca” fino al più recente “Non luogo a procedere”. Ed è assolutamente giusto che domani alle 18, nella Tenda Erodoto di Gorizia, il Festival èStoria, che ha preso il via ieri e prosegue fino a domenica, assegni al germanista e scrittore triestino il Premio FriulAdria “Il romanzo della Storia”.
«Lo storico deve guardare alla totalità dei fatti - spiega Claudio Magris -. Deve collocare il singolo destino in un contesto generale. È vero che il ’900 ha vissuto momenti terribili come Auschwitz, i gulag. Ma è anche vero che, nello stesso secolo, milioni di persone sono riusciti a ottenere maggiore dignità. Il narratore, invece, può concentrarsi sul destino di alcuni personaggi, senza perdere di vista il contesto generale. In certi passaggi di “Non luogo a procedere” dico che la Storia è un tritacarne, che finisce per lasciare sangue sotto le unghie di chi la vive. Chiaro che non voglio esercitare una sorta di pessimismo ideologico. Esprimo, piuttosto, la sensazione che in certi momenti esista solo l’inferno per una grande quantità di uomini e donne».
Il narratore può risvegliare le coscienze quando la Storia sembra dimenticare?
«Uno dei punti centrali di “Non luogo a procedere” è lo strano oblio dell’oblio che ha circondato la Risiera. Se non avessi iniziato a ragionare attorno a questa cancellazione della memoria, oggi forse il mio romanzo non ci sarebbe. L’aspetto che mi incuriosiva di più è che questo oblio dei fatti, tutto sommato, non riesce nemmeno a fare male. Ci si è dimenticati di aver dimenticato che lì dentro venivano imprigionate, torturate, gasate persone innocenti».
Nei suoi romanzi, spesso, la Storia è un inferno...
«Le storie che ho raccontate in “Alla cieca, in “Non luogo a procedere”, sono momenti in cui la Storia si è presentata con quella “terribile forza di annientamenmto”, come la chiamava Friedrich Nietzsche. Ed è chiaro che chi la subisce, attraverso le guerre, le ingiustizie, l’infelicità, in quel momento vive tutto come fosse un assoluto. Perché le disgrazie che ti ruotano attorno non possono alleviare il dolore. Né spegnere l’urlo di rabbia».
Ma si può ancora scrivere un romanzo storico nel nostro tempo?
«Lo scrittore del ’900, come quello del terzo millennio, non può più permettersi di scrivere grandi romanzi storici. Per i romanzieri dell’800 era, forse più facile. Vivevano in un mondo in cui era consentito loro usare la stessa sintassi, la stessa lingua, per scrivere le proprie storie e per dare forma a prese di posizione morale. Lo stile di Victor Hugo nei “Miserabili” non è poi tanto diverso da quello degli scritti contro Napoleone III».
Da allora è cambiato tutto?
«Sarebbe assai difficile immaginare Franz Kafka che scrive un messaggio sociale ai minatori della Slesia con lo stesso linguaggio usato per “La metamorfosi”. Mi sembra perfetta la visione di Norman Mailer quando dice “history as a novel”. La Storia sembra diventata un romanzo, perché è disposta ad accogliere in sé tutte le soluzioni possibili. E, al tempo stesso, “novel as history”: perché il romanzo è ormai la vera testimonianza storica. Non solo se racconta il momento esatto in cui in un Paese non si trova più il pane. Ma perché stringe il suo obiettivo su una singola persona che vive in prima persona quell’evento».
Oggi lo scrittore dev’essere pronto a sdoppiarsi?
«Se un giornale mi chiede di commentare l’idea di alzare un nuovo muro al Brennero per fermare i migranti non posso certo scrivere l’articolo con lo stesso tono di quando racconto di Massimiliano a Miramare. Mi sentirei rispondere che, così, non va bene. Sono due modi profondamente diversi di avvicinarsi alla realtà. Ha ragione Raffaele La Capria quando sostiene che i grandi libri del ’900 sono capolavori falliti».
Cosa vuole dire?
«Non è un giudizio negativo sugli scrittori del nostro tempo. Ma una riflessione sul fatto che hanno dovuto farsi carico dell’impossibilità di capire il mondo secondo l’ordine che seguivano i loro colleghi dell’800. Del resto, chi oggi si dice marxista sarà comunque lontanissimo dal canone classico. Ogni scrittore, ogni intellettuale deve lasciarsi naufragare. Permettere alla sua nave di solcare quel mare grande che lo separa e lo unisce alla Storia».
In “Alla cieca” ha scritto che la Storia è come un cannocchiale posto su un occhio bendato.
«Si riferisce all’aneddoto terribile su Horatio Nelson, che continuò a bombardare per due ore Copenaghen su cui sventolava bandiera bianca. Ne venne fuori un massacro, anche se i cannoni di allora non avevano la potenza devastante di quelli di oggi. A chi gli chiese come mai avesse infierito sul nemico, rispose: «”Avevo messo il cannocchiale sull’occhio bendato”».
A volte uno scrittore parla di tutt’altro, eppure...
«Ogni vero romanzo è un romanzo storico. Penso a Fulvio Tomizza, che ha scritto opere dal sapore storico non solo quando si è occupato di personaggi realmente esistiti. Come il vescovo Pier Paalo Vergerio nel “Male viene dal Nord”. O “Gli sposi di via Rossetti”. Anche “Materada” è un grande romanzo storico: sa puntare gli occhi su un episodio drammatico come quello dell’esodo degli italiani dall’Istria. Che si inserisce nel filone amplissimo del racconto di popoli che hanno dovuto abbandonare la propria terra. E “L’adescamento” di Renzo Rosso, nella sua tortuosa bellezza psicologica, fa capire davvero come i grandi problemi storici sono stati vissuti a Trieste».
A volte la fantasia reinventa la realtà.
«Ci sono romanzi surreali, fantastici, che danno il senso storico del nostro mondo. Penso a certi libri di Enzo Bettiza, fin dalla “Campagna elettorale”, che è uscito più tardi con il titolo “L’ispettore”. Ma anche a “Il re ne comanda una” di Stelio Mattioni, o il suo “Richiamo di Alma: testimonianze fantasmagoriche della condizione storica di una città tormentata come Trieste».
Siamo creature storiche?
«La nostra dimensione è quella del tempo. Nasciamo, cresciamo, ci espandiamo come gli imperi. Non vedo una grande differenza nel divenire di ognuno di noi rispetto a quello dell’Impero Romano».
È vero che “Alla cieca” doveva essere un libro costruito attorno al microcosmo delle polene?
«Ho girato il mondo per vedere da vicino i grandi cimiteri di polene. In Svezia mi segnalarono che in una locanda c’era una polena bellissima. E io ci sono andato. Poi, però, il romanzo ha preso un’altra strada. È corso dietro a un’altra storia».
alemezlo
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