Oliva: «Il regime totalitario costruito da Mussolini finì per sfuggirgli di mano»

Il saggio dello storico del ’900 analizza gli anni ’40-43 Approfonditi i crimini commessi dagli italiani nei Balcani

l’intervista



Il discorso di quel 10 giugno di ottant'anni fa è stato uno dei più brutti di Mussolini, ha scritto Indro Montanelli, uno che quel giorno era lì, in piazza Venezia. Tutto suonava falso, toni di sfida e accenti eroici. E poi la fanfaronata di battersi contro mezzo mondo. Non lo capiva anche Mussolini che sarebbe stato un disastro? Lo chiediamo allo storico e studioso del Novecento Gianni Oliva, che ha pubblicato il volume 'La guerra fascista' (Mondadori, 434 pagg., 24 euro) che colma un vuoto che dura dagli anni Cinquanta, dal lontano saggio di Giorgio Bocca: scrivere un libro d'insieme su quei tre anni di guerra, dal 1940 al '43.

Dunque, professor Oliva, quali sono le considerazioni di Mussolini quando decide di entrare in guerra?

«Mussolini dichiara guerra perché di fronte al dinamismo di Hitler non poteva rimanere neutrale. Non c'era nessuna ragione per cui Hitler non si espandesse poi anche in Italia o nei Balcani, sfera di influenza italiana. Fu una scelta obbligata fatta con una illusione: Mussolini era convinto di giocare una partita diplomatica. Fallito il piano di fare il mediatore sul tavolo della pace, dovette proseguire la sua guerra».

Sarebbe stato possibile non entrare in guerra?

«Se un regime educa per vent'anni alla guerra, quando la guerra scoppia la si fa. Però quello che succede nel 1940 non è un destino avverso, ma l'esito di una politica. Mussolini ha costruito l'immagine del regime e ha tenuto l'opinione pubblica legata a sè vendendo l'idea di una grande nazione guerriera che si vendicava dei torti subiti negli anni passati».

Lei descrive la clamorosa impreparazione militare con cui l'Italia affrontò la guerra, la improvvisazione degli alti comandi, la superficialità delle valutazioni politiche.

«Erano tutte basate su un'ipotesi sbagliata. Come in Francia, poi anche per la campagna greca si parte dal presupposto che dall'altra parte ci sarà il crollo. Il fatto è che ci sono personaggi che arrivano al potere, mi riferisco a Mussolini, con delle capacità e poi o non sanno più gestirlo o non sanno più fare la tara tra possibilità e realtà. Mussolini costruisce un regime che per tanti aspetti è totalitario ma per altri aspetti gli sfugge di mano».

Nel suo ripercorrere le vicende della guerra, lei ha scelto tre direttrici: le campagne militari, il fronte interno e i crimini di guerra commessi dai soldati italiani nei Balcani. Ci parli di questo aspetto a lungo poco conosciuto.

«La forza del movimento partigiano di Tito è stata quella di avere coagulato gli slavi attorno a un progetto di avversione nei confronti di chi li aveva umiliati nei decenni precedenti, i fascisti. Da questo punto di vista gli italiani non hanno capito nulla e hanno partecipato alla repressione come fanno tutti gli eserciti che hanno a che fare con territori occupati dove si sviluppano guerriglie: prendendosela con i civili».

Lei è stato tra i primi, una quindicina di anni fa, a occuparsi di quei crimini, nel libro 'Si amazza troppo poco', titolo che riprende una frase di Mario Robotti, comandante dell'XI Corpo d'armata in Slovenia e Croazia nel 1942.

«In Slovenia c'è stata una dura repressione contro i civili, che sono stati internati in vari campi. Quello di Gonars è il più noto, ma pensiamo a Cairo Montenotte, che si trova tra Liguria e Piemonte, dove vengono deportati i civili sloveni sospettati di essere complici della resistenza, un campo dove la mortalità era del 18%. Di questa repressione non si è parlato per anni, le cose sono cambiate dopo il 2000, ma le ricerche sono sempre state condotte in base ad archivi stranieri».

Il suo libro si conclude con l'8 settembre. Una data che si è fissata nella storia.

«Spesso rimangono impresse le cose negative, pensiamo a Caporetto. Ma l'otto settembre si è sedimentato perché è stata una giornata che ha riguardato tutta l'Italia, a differenza del 25 aprile, che appartiene solo a una parte». —

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