Quella tonaca non era per lui. Il castigo al frate banchiere che amava la bella vita

Un fortissimo colpo sul grande portone di legno rimbomba in sala, una figura affannosamente si fa largo  Fa qualche metro, ma capitola a terra tremante incapace di parlare e sporco di sangue

I riflettori si accendono sulla sala Arrigo Grassi al piano terra del Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata in occasione della mostra “La ragazza della salina” - titolo preso a prestito dall’omonimo film del 1957 di František Čáp, che vanta tra i protagonisti un giovanissimo Marcello Mastroianni - dedicata alla vita costiera di Pirano ai tempi delle saline, quando i residenti si dividevano tra la cittadina, la pesca e il duro lavoro del salinaio. Una carrellata tra gli usi e i costumi di allora, con numerose illustrazioni dell’epoca, dove non mancano - anche se in uno spazio assai ridotto - i ritratti dei pirati costieri, vere e proprie cicale di mare, distanti dalle responsabilità e sempre pronti a canzonare la vita. Alla serata l’attore Igino Radacich recita alcuni versi tratti da quello che si può definire il suo cavallo di battaglia, “Luci delle Saline”, monologo scritto di suo pugno che lui celebra quasi fosse alle prese con il “Don Quijote” di Cervantes. C’è parecchia gente, la serata appare riuscitissima. Abbondano i tailleur, le mèches, i profumi dolciastri, gli irrequieti colpi di tosse degli uomini - in netta minoranza rispetto alle donne - tenuti a bada dalle occhiate delle loro consorti, che gli esortano a resistere, ricordando loro che alla fine arriverà il momento più atteso: l’abbondante rinfresco.



E mentre la serata è nel pieno, i mariti attendono e l’attore Radacich recita quei suoi versi, a rubargli la scena è un accadimento a dir poco inaspettato. Un fortissimo colpo sul grande portone di legno rimbomba in sala e rapisce l’attenzione di tutti. È come essere scaraventati all’improvviso in un’altra storia. Gli sguardi volano all’entrata, l’attore si interrompe. Una figura affannosamente si fa largo tra i presenti. Fa qualche metro, al massimo due, ma capitola a terra proprio davanti al busto del professor Paolo Budinich. La tunica scura che indossa non mente: è un frate.

«un medico, presto!»

È sul pavimento, tremante, incapace di parlare. Il lastricato intorno a lui si colora subito di rosso. «Un medico, presto! Chiamate un’ambulanza!» urla qualcuno, mentre altri, cercando di rendersi utili, sconcertati gli si avvicinano. Dopo nemmeno una quindicina di minuti arriva un’ambulanza. I paramedici non perdono tempo. Suoni elettronici di apparecchi medicali scandiscono i secondi. Lo caricano sulla barella e, un attimo dopo, a sirene spiegate, sono in corsa verso l’ospedale. Ma non servirà. I tentativi di fermare l’emorragia e di rianimarlo risulteranno vani. Morirà durante la corsa. Il medico legale, nel suo rapporto, dichiarerà: “Sul corpo non si riscontrano segni di colluttazione.

Si evidenziano quattro profonde ferite al basso ventre, inferte con brutalità da una lama a punta di circa sei centimetri, che ha reciso in più punti l’arteria e perforato irrimediabilmente il fegato, causando un’emorragia che in breve tempo ne ha determinato la morte”. I giorni successivi i media si scatenano: “Tra la storia istriana e la movida triestina scorre il sangue”; “Una pagina di cronaca nera si consuma sotto il busto del professor Budinich”; “A nemmeno sessant’anni scompare atrocemente frate Valentino”. In città si dice di tutto, scrivono di tutto, anche se per il momento qualsiasi ipotesi sembra affrettata. Era amato, da alcuni. Criticato, da molti. Statura media, un po’ curvo, indiscutibilmente simpatico, viveva quella sua vocazione con modalità piuttosto singolari. La prima impressione è di essere davanti a una figura eccentrica, quasi mondana, a uno che, finito il suo ruolo di parroco, frequentava i salotti della buona borghesia e non disdegnava il buon vino.

E così l’amico sbruffone finisce accoltellato tra lance e alabarde


Mentre scorre il tempo e la curia si prepara a dargli l’ultimo saluto, sperando in una giustizia rapida ma soprattutto discreta, il caso viene affidato all’ispettore capo Esposito Maria Nuzzolo, dirigente di polizia di vasta esperienza, precedentemente impegnato nella Dia (Divisione investigativa antimafia) e conosciuto nell’ambiente come ’O Napulitano. L’ispettore non perde tempo. Già al funerale cerca di capire chi fosse fra’ Valentino. È uomo esperto del crimine e sa scrutare là dove gli altri hanno paura di guardare. A guidarlo l’esperienza, ma ancor più un istinto quasi animalesco che, lungo la sua carriera, spesso lo aveva portato a risolvere casi intricatissimi. «Qua ci sta troppa gente vestita bene… Sembra il funerale di un uomo importante, più che di un parroco…» dice a un suo giovane collaboratore. «Quando muore un uomo di chiesa venirne a capo non è mai facile… Non si sa con chi si ha veramente a che fare…». Nuzzolo scannerizza ogni persona presente, ogni sguardo. Curia, donne, autorità, famiglie. Cerca di capire chi sono coloro che lo piangono, quelli che si tengono a distanza, la gente più semplice accorsa a rendergli omaggio. «Con chi se la faceva ’u frate, eh? Lo hai già capito, ’uaglione?» dice al suo assistente, prendendolo in giro, ben attento a non farsi sentire da nessuno. «Dobbiamo valutare ogni possibile indizio… Vedi un po’ chi è quella bella spilungona rossa là in fondo…».

L’inconfessabile colpa della signora Ada che diventa rimorso e ricatto


le ultime ventiquatt’ore

Dalla ricostruzione delle ultime ventiquattrore di vita del frate non emergono fatti rilevanti. Lavoro di ufficio, messe, preghiera, qualche momento di relax. Ha svolto normalmente la sua routine come in molte altre giornate. A confermarlo sia un diacono sia il suo vicario. Poi, come era solito fare, verso sera se n’era uscito per fare quattro passi, dirigendosi sulle rive e infine in piazza Hortis, dove accanto alla statua di Svevo l’assassino lo attendeva. È lì che sono state trovate le prime tracce di sangue, quelle che poi lo hanno seguito fino al museo. Un’imboscata in piena regola, considerato il tempismo dell’agguato, l’efficacia dei colpi inferti, la precisione nell’aggressione. Probabilmente era stato seguito. Tutto è avvenuto in pochi istanti. Durante l’esecuzione nessuno si è accorto di nulla. L’arma del delitto, scomparsa. L’assassino, dileguatosi indisturbato tra la gente. Nessuna impronta del colpevole né altro che possa aiutare. Sono da escludere quali sospetti tutti i presenti alla mostra e anche la gioventù della movida presente in strada al passaggio del frate ferito. Sarebbe facile incolpare il primo fesso che passa, magari un extracomunitario ripreso dalla telecamera di un locale che di sicuro non ha né un alibi né la capacità di inventarsene uno. Ma Nuzzolo certe bassezze non le ha mai sopportate. «Senza un valido motivo non si uccide nessuno… Figuriamoci ’nu frate…» rimugina l’ispettore, cercando una presa in quella che, per il momento, gli si presenta come una parete senza appigli. «Qua ci serve un valido indizio… Datti da fare,’uaglione…».

Entrare nei meandri più reconditi della vita di un frate non è facile. Tutti chiedono discrezione, curia in primis, nessuno ti dà una mano. Perquisiscono accuratamente la sua stanza, la canonica, il suo ufficio. Dal cellulare esce qualcosa, ma poco. Curiosamente i telefonini del frate sono tre, uno dei quali usato quasi esclusivamente per comunicare con una donna. Dalle tante chiamate e dagli sms presenti si capisce che si tratta di una love story in piena regola che va avanti da anni. «Hai capito, ’u frate… Eccola là, la rossa spilungona…» commenta Nuzzolo vedendo nel cellulare una foto dell’attraente donna notata in chiesa, anche se non è lei a interessarlo.

Se aveva l’amante ben per lui. Non erano mica sposati, né conviventi: quindi un valido movente non ce l’aveva… Sentiremo anche lei, ma più in là…».

sorprese sul telefono

L’altro cellulare, riservato ai fedeli e al clero, custodisce soltanto richieste di aiuto e comunicazioni di servizio. Nulla di interessante per l’indagine. Invece il terzo riserva tutt’altro. Ci sono numeri e cifre, prenotazioni di voli internazionali, chiamate provenienti da Paesi esteri, soprattutto da Russia e dal Centroamerica. Emergono fatti che non lasciano indifferente l’ispettore. Nuzzolo dal cellulare passa al setaccio il suo conto corrente. Anche lì ce ne sono diversi, tre per la precisione. Due di servizio mentre il terzo è l’ennesima sorpresa: raccoglie cifre da capogiro con numeri che arrivano a sei zeri. «Hai capito ’u frate…».

Fra Valentino veicolava da una parte all’altra del mondo enormi flussi di denaro. Entravano da una parte e, dopo varie transazioni, come per magia sparivano. Nuzzolo va a parlare con il vescovo, che cade letteralmente dalle nuvole, anche lui sorpreso dai non banali movimenti di quel conto, anche se, forse per una naturale prudenza unita a un senso di protezione cameratesco, incautamente dice all’ispettore: «Ci sarà sicuramente una spiegazione. Era molto amato: non escluderei che una parte consistente di questi soldi arrivi da “carità e offerte”». Nuzzolo si sente preso in giro e trattiene a stento la sua rabbia. «Milioni di offerte? Milioni che a un certo punto spariscono?» si sfoga poco dopo in strada con il suo assistente. «Chissà da dove arrivavano… Chi è realmente ’sto sfacimm ’u frate…».

Tuttavia non ci sono prove sufficienti per formulare un’accusa precisa. L’indagine continua, stentatamente. I giornali ne parlano a fatica. Si limitano a poche parole che confondono e nulla aggiungono. Tutti questi soldi non giustificano per forza una morte: non era né il primo né l’ultimo uomo di chiesa a maneggiare tanti soldi con disinvoltura. Manca un movente e una prova certa contro qualcuno. Nuzzolo ha sulla scrivania quel dossier con tutti gli elementi a sua disposizione: cellulare, conto/corrente, qualche nominativo, le poche persone sentite, la foto dell’amante. Dalle varie scartoffie rinvenute nei suoi locali nessun aiuto. La buona società frequentata dal frate evita di parlarne. La diocesi cerca di voltare rapidamente pagina. Passano molti mesi, più di un anno: non succede nulla. Il caso sembra caduto nell’oblio: lo è. «Va sempre a finire così, quando c’è di mezzo un uomo di chiesa… E anche tanti quattrini…».

una vita sbagliata

A svelare come sono andati realmente i fatti non sarà né la giustizia né un testimone ascoltato in un’aula di tribunale. Il caso ufficiosamente è stato archiviato: la giustizia non ha saputo trionfare. Che il frate gestisse da vero banchiere soldi per conto terzi lo raccontano le cifre a sei zeri sul suo conto. Ma cosa avesse fatto realmente per meritarsi quel castigo definitivo resta un mistero. Per raggiungere la questura Nuzzolo passa sempre davanti al Museo della Civiltà Istriana dove mai si sottrae dal buttare l’occhio nella sala dedicata ad Arrigo Grassi spettatrice del crimine. Detesta non essere riuscito a dare un volto all’assassino. In quei suoi rapidi passaggi si accorge che nella sala, proprio davanti al busto del professor Budinich, c’è spesso una donna. Se ne sta lì, quasi ogni mattina. In silenzio. Dopo diversi passaggi l’ispettore non ha dubbi: è la seducente rossa del frate. Ma sembra diversa. Appare mesta, scolorita. Quel suo fascino sembra svanito.

Una mattina Nuzzolo prende coraggio e le si avvicina, sente che deve farlo. Il dialogo è immediato. «Valentino non meritava di finire così… Forse quella tonaca non era per lui… Vestiva una vita sbagliata… Desiderava altro… Ma una fine così…». È come se sentisse il bisogno di sfogarsi, le parole le escono fluide e sincere. Nuzzolo l’ascolta, mettendo al centro l’uomo, lasciando da parte l’ispettore. «Eravamo stanchi di quella clandestinità, non ne potevamo più. Diceva di aver sistemato “certe cose” per noi due, che una vita nuova era alle porte, che presto saremmo stati in una casa tutta nostra, lontano da Trieste, dove ci saremmo amati alla luce del sole. Non capivo bene quali fossero i suoi intenti, cosa celassero le sue parole. Egoisticamente non lo volevo nemmeno sapere. Mi affidavo a lui, al suo buon senso, a quel suo amore. Perché Valentino voleva me, a tutti i costi: desiderava da me un figlio. Ha rubato per il nostro amore a qualcuno che non perdona. Il resto me l’hanno raccontato i giornali. Ha rubato, per me… È stato ucciso, per me… E ora devo convivere con il dolore e anche con il rimorso di essere stata io la causa…». Una dichiarazione era stata fatta, che non sarebbe servita per riaprire l’indagine non importa. Profondamente colpito, in un gesto di solidarietà, Nuzzolo la stringe a sé, aggiungendo soltanto: «Chi può dire di vestire i panni adatti? Chi di noi, può farlo? Forse anch’io sarei stato un uomo migliore recitando in un’altra vita… Ma è questa la vita che abbiamo, bella signò, soltanto questa possiamo vivere…». —

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