Stefano Bises porta a Gorizia “M”, il Duce senza scorciatoie
Lo sceneggiatore sarà ospite lunedì 21 luglio al Kinemax per raccontare la scrittura della serie pop su Mussolini. Un riferimento non velato a Trump

Dietro a serie cruciali degli ultimi dieci anni come “Gomorra”, “The New Pope”, “Esterno notte” e “M – Il figlio del secolo”, e alla prossima “Portobello” di Marco Bellocchio che ripercorre la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, c’è la penna dello sceneggiatore Stefano Bises, uno degli ospiti speciali del Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura “Sergio Amidei”, in programma a Gorizia dal 17 al 23 luglio.
Il festival, arrivato alla 44ma edizione e dedicato al grande sceneggiatore triestino di “Roma città aperta”, mette al centro l’importanza narrativa e civile della scrittura cinematografica con sette giorni densi di proiezioni e incontri.
Sono in arrivo anche due grandi nomi del cinema contemporaneo, vincitori del Premio all’Opera d’Autore: Ferzan Ozpetek, che sarà premiato il 17 luglio al Parco Coronini Cronberg e il giorno successivo, al Kinemax, terrà un incontro col pubblico anche per presentare uno dei suoi film più iconici, “La finestra di fronte”, e la regista e sceneggiatrice francese Céline Sciamma, che da sempre esplora il tema dell’identità di genere e l’infanzia in film come “Tomboy” e “Ritratto della giovane in fiamme”, premiata il 19 luglio.

Il 23 luglio, ospiti della nuova sezione “Neuropatie: il cinema e la cura dei traumi del corpo europeo” sulle contraddizioni dell’Europa contemporanea, saranno Gorizia i registi Andrea Segre e Mimmo Calopresti in un incontro con Stojan Pelko, responsabile del programma artistico di GO! 2025.
Bises, insieme al co-sceneggiatore Davide Serino, il 21 luglio alle ore 18 al Kinemax ripercorrerà il processo di scrittura della serie-evento “M – Il figlio del secolo”, tratta dall’omonimo libro di Antonio Scurati, dedicata all’ascesa di Benito Mussolini interpretato da un monumentale Luca Marinelli. Il regista Joe Wright ha scelto proprio Gorizia per una parte delle riprese.
Vi aspettavate il clamore suscitato da “M”?
«Sì, visto il significato politico del romanzo di Scurati e il momento storico. Pensavo arrivassero più critiche sia da sinistra che da destra: la reazione invece è stata una fortissima irritazione da destra, ed è stato riconosciuto il messaggio antifascista contenuto nella storia».
“M” è lontano dal classico period drama: Mussolini si racconta rivolgendosi allo spettatore. Come avete scelto questa chiave?
«Viene dal libro: nelle prime e ultime pagine, per la prima volta non c’è qualcuno che parla di Mussolini, ma parla il Duce stesso. È un personaggio negativo ma, confidando al pubblico le sue debolezze e i suoi lati più abbietti, crea una complicità con lo spettatore. Questa chiave ci permetteva anche di fargli raccontare alcuni fatti senza doverli mettere in scena, come l’impresa di Fiume, le figure di D’Annunzio, Giolitti. E di mostrare che gioca su due tavoli, distinguendo ciò che dice da ciò che pensa veramente».
La serie è pop, feroce e ironica: come avete trovato il tono giusto?
«Mi sembrava che l’essenza di Mussolini fosse un tratto da arci-italiano che incarna un po’tutti i difetti del paese: l’opportunismo, il cinismo, l’ingegno, una certa dose di vigliaccheria. È una mescolanza di tragico, ironico, grottesco, una figura quasi alla Alberto Sordi. Entriamo in confidenza con lui ma poi lo vediamo fare cose immonde e proviamo pudore verso noi stessi per averlo trovato “simpatico”».
In una battuta il Duce dice: “Make Italy great again”. Riferimento diretto a Donald Trump.
«Mussolini è l’inventore del populismo. Volevamo fosse chiaro che molti politici si ispirano a lui nelle tecniche di comunicazione. Ci siamo chiesti se il riferimento a “Make Italy great again” non fosse troppo sfrontato, ma anche il copyright di quel concetto appartiene a Mussolini: con l’idea di ricostituire l’impero, è stato il primo a dire “ricostruiamo una grandezza passata”».
Prossimamente vedremo “Portobello”, la serie che ha scritto con Bellocchio sul caso Tortora: come lo raccontate?
«Ci siamo basati sulle cronache di quegli anni, gli atti giudiziari, abbiamo incontrato magistrati, avvocati, persone dello spettacolo che lo conoscevano, suoi familiari. Abbiamo cercato l’universale nel particolare: come se, oggi, Oprah Winfrey fosse arrestata con l’accusa di traffico di droga e associazione mafiosa, e poi si scoprisse che era tutto finto. Pazzesco. Non è solo un clamoroso errore giudiziario, ma anche il racconto di un momento particolare del paese».
Quale?
«I pentiti del caso Tortora sono i primi con i quali la magistratura italiana si trova a che fare: un materiale umano che non sanno come trattare. Non capiscono perché gente che si autoaccusa di delitti dovrebbe mentire. Nella serie raccontiamo anche perché mentirono. Oltre all’elemento kafkiano della tragedia di un uomo perbene, è un racconto di costume italiano, a partire dal campanilismo: Tortora era amato da metà del paese e odiato dall’altra metà. C’è un’inclinazione nazionale a costruire eroi, metterli su un piedistallo e poi, quando diventano irraggiungibili, volerli vedere nella polvere. Pensiamo a Tangentopoli: l’Italia diventa forcaiola poi dimentica, riabilita. O all’atteggiamento avuto con Mussolini: ti idolatro e poi scempio i tuoi resti. Ma anche con figure positive come i giudici antimafia, eroi quando muoiono, e poi la loro memoria viene spesso calpestata».
Vedremo mai un sequel di “M”?
«L’abbiamo scritto ma per il momento non ci sono i soldi per farlo, o il mercato non sente il bisogno di proseguire questo racconto. Mi addolora, perché ciò che succede dopo è fondamentale per capire dove ci ha portato il fascismo. Non raccontarlo attraverso uno strumento capillare come la tv è un delitto. Se sopravvive l’idea di un Mussolini che ha fatto anche cose buone è perché abbiamo annacquato la conoscenza di quanto consapevoli e criminali siano state le sue azioni. Perché non ci troviamo tutti d’accordo nel dire che è stata una dittatura distruttiva? Se fossi un uomo di destra farei di tutto per non associare le mie idee a quel periodo. Ma c’è una destra che quel cordone ombelicale non lo vuole tagliare, perché sta nella propria identità». —
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