Woody Allen: «Trump è stato un bravo attore ma fare il Presidente negli Usa è un’altra cosa»

Nella suite ovattata di un albergo a due passi dall’Eliseo, a Parigi, con addosso un pullover di shetland verde, identico a quelli che ha sempre portato nella vita e sullo schermo, Woody Allen svela le sue grandi nostalgie, spiega perché continua a fare film, racconta com’era a vent’anni anni e come sta oggi, in un momento complesso che, almeno in apparenza, non sembra angosciarlo più di tanto: «Sono sempre stato ansioso e vulnerabile, lo ero a cinque anni, a 35, a 45, e lo sono anche adesso. Solo che ora la gente mi dice “hai 83 anni, come vorresti sentirti?”».
Il suo ultimo film “Un giorno di pioggia a New York”, protagonisti Timothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Diego Luna e Liev Schreiber, uscirà il 10 ottobre in Italia con Lucky Red, ma la causa con Amazon, che ne ha bloccato la distribuzione negli Stati Uniti (in seguito all’accusa di molestie alla figlia Dylan, adottata con Mia Farrow, ritenuta dai giudici priva di fondamento) è ancora in corso e, per questo, su richiesta degli avvocati l’argomento è tabù.
Di ritorno da San Sebastian, dove ha appena finito di girare la nuova opera Rifkin’s Festival («ma il titolo è provvisorio»), Allen si gode il suo giorno di sole a Parigi, nel cuore di quell’Europa che per lui è diventata una seconda patria, affettuosa e disponibile.
Il cinema nelle sale attraversa una fase di crisi, che effetto le fa?
«Provo una grande tristezza nell’assistere alla lenta sparizione dell’abitudine di andare al cinema. Un’abitudine che, per me, è sempre stata uno dei più grandi piaceri della vita, quando ci andavo da ragazzo saltando la scuola, oppure la domenica con i miei genitori, o il sabato sera con la fidanzatina del momento. Vedo i miei figli guardare film sul computer, ma non capisco come facciano a rinunciare a quella sensazione speciale del ritrovarsi in una grande sala buia, con gente che non conosci, per seguire le vicende di attori pieni di carisma».
Che cosa significa, oggi, per lei, fare film?
«Continuerò a farne finché potrò permettermelo e finché avrò chi me li finanzia, se un giorno non mi dessero più i soldi necessari, sarei contento di potermi dedicare ad altro, scrivere libri oppure testi teatrali. Dirigere è la parte più facile della realizzazione di un film, niente in confronto alla ricerca di finanziamenti».
Il suo cinema ha grande successo in Europa, si sente un po’ europeo?
«Qui in Europa sono stato molto fortunato, mi hanno sempre apprezzato e di questo sono grato. Ho anche pensato che il merito fosse delle traduzioni, forse in altre lingue i miei film acquistano, diventano migliori».
Con «Un giorno di pioggia a New York» torna alla commedia romantica. Lei si definirebbe romantico?
«Mi sono sempre considerato romantico, adoro fare e vedere film romantici. Il fatto è che c’è una differenza tra come ti vedono gli altri e come tu vedi te stesso. E gli altri mi hanno sempre visto comico, buffo, divertente».
Il suo protagonista, Gatsby, interpretato da Chalamet, richiama la sua immagine giovanile, è un intellettuale, sognatore, canta, suona il piano, ma è anche un bravo giocatore di poker. Come lei?
«Lo sono stato, per esempio, durante la lunghissima lavorazione di Casino Royal, in Gran Bretagna, io e gli altri attori non avevamo niente da fare e passavamo un sacco di tempo a giocare. Ero bravo, tutti la prendevano alla leggera, ridendo e facendo battute, io, invece, ero serio e concentrato e tutte le notti guadagnavo un sacco di soldi».
Com’era a vent’anni?
«Molto meno informato e sofisticato dei ventenni di oggi. Venivo da un retroterra borghese, non sapevo niente di niente. I ragazzi di adesso sanno tutto di politica, di vita, di droghe, di sesso».
Nella storia, la giovanissima Ashleigh deve fare un’importante intervista e, in una delle battute, si dice che i giornali sono diventati tutti tabloid. Come vede la crisi mondiale della carta stampata?
«Ho sempre avuto un’enorme passione per il giornalismo, mi piacevano i cronisti di nera, li consideravo degli eroi che scovavano i colpevoli e li mandavano in galera. E mi piaceva tanto la varietà di giornali nelle edicole, il fatto che garantisse tante opinioni, critiche, e punti di vista diversi. È un peccato che tutto questo stia venendo meno. Oggi, nel disperato tentativo di resistere alla sparizione, molti giornali inseguono i lettori riempendosi di pettegolezzi, come i tabloid».
Come vede l’America di Trump?
«Frenetica. Sono democratico, ho votato per Hillary Clinton, pensando che vincesse, e adesso, come tutti gli altri democratici, aspetto che arrivino le prossime elezioni».
Ha diretto il presidente Trump nel suo film «Celebrity», che attore era?
«Molto bravo, imparava le battute, faceva quello che doveva fare, ma la condizione di Presidente degliStati Uniti è molto diversa».
In genere è soddisfatto dei suoi film?
«No, per niente. Sono felice quando scrivo e faccio il cast. Poi, quando vedo il prodotto finito, provo sempre un certo disappunto, noto gli errori, le cose che mancano. L’ideale con cui parto è sempre diverso dalla realtà del risultato».
Suonare il clarinetto è fonte di consolazione?
«Potrebbe esserlo se fossi un bravo musicista, ma sono solo un amatore che suona con molto entusiasmo».
In «Manhattan», nel 1979, stilava la lista delle dieci cose per cui vale la pena di vivere. Se dovesse rifarla adesso, cambierebbe qualcosa?
«All’epoca non avevo vissuto l’esperienza della paternità, ora tutta la mia vita ruota intorno ai miei figli e a mia moglie e quindi nella classifica loro verrebbero prima di tante cose». —
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