Povero furetto stecchito non aveva nessuna colpa delle tresche di Fumiaki

«Amore, hai letto il Piccolo?». «No tesoro, che c’è di nuovo? Un altro omicidio?». «Allora l’hai letto?». «Non dirmi che ho indovinato… in quale museo?». «Quello d’Arte orientale». «Ah, finalmente qualcosa di esotico! Chi è il morto? Un ninja, un samurai o una geisha?». «Spiritoso… danno solo le iniziali, F.S., un uomo di mezza età. Cosa vorrà dire, poi, “uomo di mezza età” a Trieste… Sarà sulla settantina, che ne pensi?». «Probabile. Magari il morto è Cesco. Cesco di Betty». «Chi è Cesco di Betty?». «Ma sì, dai, Francesco Sinigoi, l’hai conosciuto da Pepi. Il marito di Elisabetta Besenghi, Betty». «Ah, intendi Cesco l’orientale? Quello con la passione per le cineserie?». «Esatto! In realtà la passione è per una cliente del bar Unità, ma si incontrano spesso al museo, per essere discreti, capisci...».
Questo è solamente uno dei tanti commenti che Lucia Vito, capo della Polizia, sentì quel giorno,quando venne resa pubblica la notizia dell’ennesimo delitto in un museo della città. Lucia Vito, d’istanza a Trieste da pochi mesi, era chiamata da tutti Olivia per l’imbarazzante somiglianza fisica con la fidanzata di Braccio di ferro. A spingerla da Courmayeur all’estremo Nord-est del Paese era stata la causa di separazione con l’ex marito, tale Fernando Canale che faceva rima con “se ti prendo ti faccio male”. Dopo anni di abusi e minacce, infatti, ottenuta la sentenza di divorzio, aveva chiesto il trasferimento. Trieste le era sembrato il luogo ideale.

Quel pomeriggio Olivia decise di uscire dall’ufficio prima del solito per godere della luce del tramonto, della brezza marina e di un aperitivo alla Portizza. Lì, però, anziché trovare frotte di turisti interessati esclusivamente alle bellezze e al cibo locali, trovò frotte di triestini, interessati esclusivamente alle ciacole e ai babezi locali, irrimediabilmente attratti e affascinati dai fatti di cronaca nera della città. Ognuno con la sua versione dei fatti e ognuno con il suo F.S. di turno.
“Xe più giorni che sashimi”
C’era chi parlava di un tale Cesco Sibelia “quel de Muia col bicer de nero in man ale oto de matina”, chi diceva “ciò, quel mona de Skabar ghe la ga dada”, chi piangeva un tale Cesco Sancin “iera un toco de pan, el meio mulo de Roian, no pol esser lui” e chi scherzava su un ipotetico Francesco Seganti, magari parente scomodo di un noto esponente politico cittadino.
In realtà, il morto si chiamava Fumiaki Suzuki e della classica macchietta triestina non aveva proprio nulla, se non un morbin alquanto grottesco, esibito in maniera del tutto involontaria. Al collo, infatti, brillava un cartello: “Xe più giorni che sashimi”, intriso curiosamente di vasellina e tra le ginocchia paffute spuntava un lettore cd che sparava a tutto volume una languida nenia nipponica. Poco distante, un furetto morto stecchito completava il quadro. Anche lui portava al collo un cartello intriso di vasellina: “Deme pase!” e tra le zampe pelose ostentava un doppio cd: “Shakuhachi Sleep Music”. Questi erano solo alcuni dettagli.
A dare l’allarme, quella mattina, era stata la donna delle pulizie, arrivata per prima sul luogo del delitto. Ma chi era Fumiaki Suzuki e perché era stato conciato a quel modo? La scena che si palesò agli occhi di Olivia faceva rabbrividire. Il corpo lardoso del giapponese era adagiato a terra, con la schiena addossata al muro, le gambe piegate verso il pube in maniera approssimativa e le mani posate sulle ginocchia flesse. Sembrava impegnato in un esercizio yoga. La posizione del corpo, effettivamente, ricordava quella del loto, più un loto appassito che un fiore in salute. Senonché, dietro le spalle faceva capolino il manico di un coltello.
A ogni modo, prima di occuparsi dell’arma, Olivia diede uno sguardo al furetto. Anche lui era nella stessa posizione di Fumiaki - loto appassito - con la schiena addossata al muro, le zampe posteriori accavallate sul ventre e quelle superiori strette attorno a uno spiedino in acciaio inox, infilzato appena sopra il minuscolo pene che in principio scambiò per una cisti. Che fosse il suicidio di un animale stressato? Le chiazze di alopecia erano evidenti.
Distolto lo sguardo da Toni il furetto – il “Deme pase! era pure firmato - Olivia si concentrò sull’arma del delitto. La cultura asiatica la affascinava, ma l’entusiasmo per l’utensile durò poco. L’oggetto, infatti, una volta estratto dalla palla di lardo giapponese, apparve in tutta la sua banalità. Si trattava di un comune coltello da cucina per sfilettare il pesce, marchiato Ikea! Tuttavia, l’inevitabile sconforto che ne seguì, cedette presto al prurito intellettuale, quando un singhiozzo strozzato dell’agente Loris Cattunar interruppe il surreale silenzio contemplativo che si era creato attorno alla posata.
Immediatamente, Olivia pensò che Cattunar fosse amareggiato per la scelta discutibile dell’arma, un insignificante coltello Ikea anziché un’elegante katana. Poi, però, ricordò la passione dell’agente per i furetti e immaginò il dolore che potesse aver provato alla vista del mustelide infilzato nello spiedino. Poi ancora, ricordò... Due settimane prima, la giovane moglie di Loris aveva fatto harakiri. Naturalmente si persuase che il motivo di un pianto così inopportuno fosse proprio quello, la morte prematura della moglie.
un’opera d’arte tra opere d’arte
Accantonate la perplessità, la fantasia e le ipotesi sulla tristezza di Cattunar, Olivia riprese in mano la situazione con lucidità. Che significato aveva quella messa in scena? Fumiaki, tra l’altro, era vestito da geisha. Aveva il volto impomatato con il cerone bianco di rito, il rossetto rosso, l’ombretto fucsia e la parrucca fiorita. Un’opera d’arte fra tante opere d’arte. Il cadavere brillava – sempre per la luminescenza della vasellina - sotto la famosa silografia di Hokusai “La grande onda di Kanagawa”. Il mistero era sempre più fitto. Per fortuna, l’assassino aveva risparmiato il furetto da quel trattamento beauty!
Chi era davvero Fumiaki Suzuki? Quale verità nascondeva il suo cadavere carnevalesco? Gli esiti delle prime indagini svelarono una realtà paradossale: Fumiaki Suzuki, nato a Osaka sessant’anni prima era un uomo in sovrappeso, signorino, ipertricotico, diabetico, miope, civettuolo, con la fobia per il formaggio gorgonzola, la passione per le silografie di Hokusai e innumerevoli precedenti penali per furto e truffa aggravata. Era proprietario di “El rebechin giappa”, un chiosco a forma di pagoda spuntato improvvisamente nella pineta di Barcola che aveva messo in ginocchio “El Fritolin” proponendo sushi, sashimi, maki e sakè. Inoltre, era ossessionato dai furetti maschi, dalla vasellina, dai kimono floreali e dalle nenie nipponiche! Infine, era tirchio e misogino, anche se lui amava definirsi parsimonioso. Il cartello “Xe più giorni che sashimi”, probabilmente era un’allusione ironica alla sua proverbiale spilorceria, così come la vasellina, il cd, il trucco-parrucco e il mustelide stecchito erano un’allusione ironica alle sue stravaganze.
A quel punto, cominciava a profilarsi un’indole piuttosto subdola ed equivoca di Suzuki e a prendere corpo l’ipotesi di un movente. Forse la concorrenza voleva eliminarlo dal settore della ristorazione? Forse un dipendente sottopagato bramava vendetta? O forse, piuttosto, un animalista convinto agognava lo scempio del suo cadavere?
Pare, infatti, che il furetto venisse esibito al chiosco come un trofeo e molestato da giovani ragazzi storditi dal sakè e dalle nenie nipponiche. Alcuni clienti testimoniarono che Toni sembrava davvero infastidito per le continue attenzioni e giurarono, addirittura, di aver chiaramente intuito, più volte, dal labiale del mustelide, un inequivocabile “Deme pase!”.
alibi di ferro
Ad ogni modo, la morte di Suzuki risaliva alla tarda serata tra venerdì e sabato e tutti i possibili sospettati avevano un alibi di ferro. Tra l’altro, quel pomeriggio, l’ingresso al museo era stato interdetto al pubblico per organizzare la conferenza “Oltre ai ciliegi in fiore, in Giappone c’è di più”, evento riservato a una decina di diplomatici arrivati in mattinata a bordo di un panfilo di lusso, ripartito subito dopo il simposio. Nemmeno tra loro, pertanto, poteva esserci il colpevole. Eppure, la porta del museo, così come le finestre e gli abbaini erano integri e perfettamente funzionanti. Senza alcun dubbio l’assassino aveva agito dall’interno. Le indagini, allora, si diressero verso chi aveva libero accesso al museo.
Il direttore era in ferie a Buttrio e il capo segreteria era in sala parto. Le tre dipendenti in servizio - Anna, Paola e Flora - vennero tartassate allo sfinimento. Oltre, però, ad avere anch’esse un alibi di ferro - festeggiavano al Casinò il successo di una mastoplastica additiva di gruppo - Anna era mancina, di conseguenza esclusa dai sospettati per la conformazione della ferita, Paola era affetta da un’artrosi galoppante alle dita della mano destra e Flora, ahimè, era cieca. A quel punto Olivia ebbe un confronto con Cattunar che d’improvviso crollò. Dopo un repentino giramento di testa, infatti, l’uomo svenne!
Una volta riavutosi dal mancamento, Loris, piagnucolante dal giorno del delitto, suggerì distrattamente al capo di parlare nuovamente con la donna delle pulizie del museo, sentita solamente nei minuti successivi al ritrovamento dei cadaveri. Ginetta Crivicic detta Gina era una donna minuta, ma inquietante. Alta quanto un Bonsai e nerboruta quanto una creatura mitologica. Quaranta chili di aggressività, ipertricotica pure lei, segnata da una via lattea di nei bitorzoluti sul collo. Era l’identikit vivente di un maratoneta keniota con la parrucca, grintoso e determinato, senonché, di fronte alle fotografie di Suzuki e del mustelide nella posizione del loto appassito, ebbe un fremito inopportuno. Quell’incertezza, naturalmente, non sfuggì a Olivia che iniziò a interrogarla in maniera serrata. Prima, però, che Gina potesse parlare, l’agente Cattunar esplose con un grido raccapricciante «io lo amavo veramente, era la mia geisha». Sbigottita, Olivia guardò il suo pupillo e questo confessò una storia sordida.
un grottesco trio
«Conobbi Fumiaki qualche mese fa al chiosco. Tra un sakè, un sashimi e una carezza al furetto, sbocciò l’amore. Un amore maturo, inaspettato e, soprattutto, omosessuale. Per entrambi fu uno shock e per entrambi fu un dramma lasciare le rispettive compagne. Fumiaki era fidanzato con la Crivicic, mentre io ero sposato con Nella Biasiol. Mia moglie reagì male, suicidandosi, mentre la Crivicic reagì bene, così sembrò, nonostante la scoperta di un grottesco trio omosessuale nel letto che condivideva con il compagno. Proprio così, tra me e Fumiaki c’era anche Toni!».
A quel punto Gina lo interruppe. «Avevo accettato di buon grado il cambio di prospettiva sessuale di Fumiaki e mi ero tuffata a capofitto nel lavoro. Lì, però, qualcosa andò storto. Le pulizie al Museo d’Arte orientale evocavano di continuo il pensiero di quel tradimento e le silografie di Hokusai mi perseguitavano anche di notte. Fu allora, dopo l’ennesimo incubo che ebbi l’idea: mandarlo a quel paese. Ucciderlo in mezzo a tante giapponeserie, con tutti i suoi difetti in bella vista: il kimono da geisha che usava con Cattunar, la vasellina che usava con Cattunar, il coltello che usava con Cattunar, la nenia che usava con Cattunar e il furetto che usava con Cattunar…», su quest’ultimo dettaglio Olivia non riuscì a trattenere un flato puzzolente.
«È stato semplice. Di norma arrivavo al museo alle sei di mattina e me ne andavo alle otto. Quel venerdì, invece, dovetti tornare alle 19 per preparare la sala conferenze. Avevo dato appuntamento a Fumiaki al museo per definire alcuni aspetti sulla spartizione dei beni comuni. “Le tre Grazie” erano impegnate a imbellettarsi. Non si accorsero di nulla. Ovviamente Fumiaki era con Toni, presenza costante, come accennato. Portai le due checche in una toilette e lì commisi il duplice delitto. Nascosi i corpi nell’armadio dei detersivi, affissi alla porta del bagno il cartello “fuori servizio” e la chiusi dall’interno. Cenai sul wc con un doppio cheeseburger, in barba al sashimi, e feci sogni d’oro con due compresse di Tavor. La mattina seguente, completai l’opera indisturbata». A quel punto Gina esitò, «a dir il vero...». In un istante si trasformò nuovamente nel grintoso maratoneta kenyota con la parrucca e in maniera repentina si avventò su Cattunar trafiggendolo all’addome con un altro coltello Ikea, chiosando beffarda: «Ora l’opera è davvero completa. Come si dice… Non c’è due senza tre e, soprattutto, fin che coro no me ciapè!». In un battibaleno si dileguò con l’agilità di un furetto e l’atteggiamento sfrontato della boba marza senza, tuttavia, dimenticare le buone maniere: «Saluti a Braccio di Ferro, mia cara!». —
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