In quella stanza zeppa di cimeli nazisti l’ombra nera delle SS

Uno. Dalla sua posizione l’avvocato Candida Lippolis riesce a vedere solo l’SS Obersturmführer Joseph Oberhauser e lo Sturmbannführer Dietrich Allers che la guardano sorridenti accanto a una bandiera con la croce uncinata. Le palpebre pesanti, il cervello intorpidito, Candida non ricorda come mai si trova in quella stanza vuota, fiocamente illuminata. Prova a muoversi ma qualcosa la blocca. È legata alla sedia, le mani dietro la schiena, le caviglie immobilizzate. Un fiotto di adrenalina la percorre. È prigioniera.

Due. Strano, pensa l’avvocato Valdo Pizzi, socio nello studio legale Pizzi & Lippolis e amico di Candida. Sa che la donna dimentica spesso lo smartphone nei posti più impensati, però non farsi sentire da un giorno intero non è da lei. L’ultima volta che avevano parlato, Candida era su di giri. Aveva scoperto qualcosa di molto interessante, ma non aveva voluto dire di più. «Lo saprai a tempo debito, devo fare un controllo». Anzi, cosa aveva detto esattamente? Un’«ispezione», sì, aveva usato esattamente quella parola. Non si trattava di un caso che riguardava lo studio, visto che il lavoro scarseggiava.
Decide perciò di andare a casa di Candida, di cui per ogni emergenza ha copia delle chiavi. Entrato nell’appartamento viene accolto da Zeus, che reclama con stizziti miagolii il pranzo. Grattando la testa al felino, Valdo nota come la ciotola dell’acqua sia vuota, segno che la padrona di casa manca da un po’. Ispeziona le stanze alla ricerca di qualcosa che possa essergli d’aiuto per risalire a quell’insolita sparizione. Dello smartphone non c’è traccia, ma su un tavolino del bagno trova il cordless, dà una scorsa alle chiamate ricevute ma senza trovare nulla di particolare. Tra quelle effettuate, l’ultima era diretta a un numero cui non è associato alcun nome.
Tre. Oberhauser e Allers continuano a guardare Candida e a sorriderle. Un sorriso beffardo, tutt’altro che amichevole. L’avvocato lentamente riprende lucidità e i suoi occhi mettono a fuoco le sagome di cartone ad altezza naturale sulle quali sono state ingrandite le foto dei due nazisti. Accanto, una gigantografia a tutta parete riproduce la Risiera di San Sabba. In una teca divise delle SS, elmetti e bandiere. In un’altra, solitaria, appoggiata su un cuscino, c’è una mazza ferrata.
l’ultima chiamata
Quattro. «Buongiorno, sono l’avvocato Pizzi, con chi parlo?». L’ultimo numero che Candida ha chiamato risponde sotto forma di una voce d’uomo che dice «Armando. Che cosa vuole?». «Sono un amico dell’avvocato Lippolis. So che l’ha cercata qualche giorno fa. Posso sapere il motivo?», chiede Valdo. «Beh, ho già parlato con l’avvocato e non credo siano affari suoi», risponde ruvido l’altro. «Non mi faccia perdere tempo», riprende Valdo. «Candida è scomparsa. Mi può aiutare?».
Armando fa una pausa, poi: «Venga a trovarmi. Anche subito. Sono alla sala biliardi di via Montepagani». Valdo sta per andarsene quando nota sul divano del soggiorno, dove Candida ama abitare l’ora prima di cena in compagnia di un gin tonic, un libro aperto a metà. Segnato dalle sottolineature con matite di vario colore, le pagine spiegazzate, deve essere stato letto con molta attenzione. Dopoguerra a Trieste, gli anni del Governo militare alleato, l’argomento stupisce Valdo, mai la socia aveva mostrato interesse per quelle cose. A giudicare dai segni di matita le pagine che hanno colpito di più Candida sono quelle dove si parla dei nazisti che dopo il 1945 sono rimasti in città, protetti da una rete di complicità e poi spariti chissà dove. Forse nemmeno troppo lontano, come quell’ucraino, si legge, che aveva una bottega di calzolaio fino agli anni Settanta dalle parti di piazza Perugino.
Cinque. “Ci sono più nazisti oggi che nel 1938”. Chi aveva detto quella frase? Ma sì, Thomas Bernhard. Lo scrittore austriaco che ce l’aveva coi suoi connazionali perché avevano goduto i vantaggi del nazismo e poi si erano autoassolti, senza mai fare davvero i conti col passato. Per Candida è stata una sorpresa scoprire che anche nella sua città si era allungata ben dopo la guerra un’ombra nera che aveva protetto i criminali. E adesso quell’ombra la sta avvolgendo. Ora è pienamente sveglia, in quella stanza zeppa di cimeli nazisti. Non sente nessun rumore, il silenzio è totale. Ha paura. Lui la sta spiando con qualche telecamera? Nessun occhio in giro, sembra. Prima o dopo, questo è sicuro, verrà a trovarla. Ma come poteva esserle venuta quell’idea, si chiede adesso Candida, che maledice la sua curiosità, che non poteva che condurla là, legata a quella sedia e con quei due davanti a fissarla.
Sei. Valdo guida nel traffico del pomeriggio. Questa città ha quattro strade e sono tutte ingolfate. Come le arterie dei suoi anziani abitanti. La salveranno i cinesi che sembra stiano per arrivare? Valdo si ridesta dai pensieri sulle carovane in marcia lungo la Via della Seta e arriva davanti alla sala biliardi, una vecchia palazzina all’interno delle strutture portuali ormai dismesse. Il gestore della sala biliardi, Maurizio, è una faccia nota, Valdo lo aveva difeso per una faccenda di poco conto. «Buongiorno avvocato, come va?». «Salve Maurizio, cerco una persona, un certo Armando». «Come no, lo trova in fondo alla sala interna. Vuole un toast? I nostri sono i migliori della città». «Lo so, Maurizio, ma non ho fame». Valdo sa bene che il gestore è un asso nelle vanterie e quella dei toast, anzi dei tosti, come c’è scritto sopra il bancone, non è neanche delle più grosse. Armando, un settantenne ben piantato, è concentrato su un colpo. Una stretta di mano, pochi convenevoli. «Mi interesso di cose vecchie», dice l’uomo. «Quali cose?», chiede Valdo. «Cose di guerra». «Armi?». «Anche». «E l’avvocato Lippolis cosa c’entra con le armi?», si informa Valdo. «Mi aveva contattato per sapere qualcosa della mazza ferrata che era stata ritrovata tra le macerie del forno crematorio della Risiera di San Sabba.
Un arnese infernale
La mazza era un arnese infernale. Un manico di legno era stato saldato a un cavo di acciaio con un bullone all’estremità. Si dice che molti detenuti fossero stati uccisi con un colpo alla testa di quella mazza. Quando la Risiera era diventata un museo era stata esposta in una teca, ma qualcuno non molti anni dopo l’aveva rubata». «Sapevo che era stata rubata e che al suo posto avevano messo una copia», interviene Valdo. «Esatto, l’avvocato mi aveva fatto vedere una foto e, per quanto quella originale non l’abbia mai avuta in mano, avrei giurato che fosse proprio la mazza rubata», spiega l’esperto d’armi. «E da dove saltava fuori la foto, l’avvocato glielo ha detto?» «No - risponde Armando - ma da quanto ho capito la foto l’aveva fatta lei, ce l’aveva nella gallery dello smartphone». «Vuole dire che Candida ha scoperto chi ha sottratto la mazza ferrata?». Valdo cerca di mantenersi freddo ma già immagina scenari poco rassicuranti. E non è che ci voglia poi la sagacia del tenente Colombo. «Questo non lo so. Mi ha fatto vedere la foto e basta». «E ricorda qualche altro particolare?». «No, c’era solo la mazza in primo piano. Ah, sì, una cosa buffa», aggiunge Armando. «In un angolo spuntava il muso di un gatto con gli occhi sbarrati. Me lo ricordo perché aveva lo sguardo pallato come quel ministro, ha presente? Mai visto un gatto con due occhi così». Valdo ha un tuffo al cuore. Zeus. Non può essere che lui.
Ma se il gatto di Candida è finito nella foto con quell’oggetto infernale, forse il luogo dove si trova la mazza ferrata non è distante dalla casa di Candida, ragiona l’avvocato. Che decide di andarci subito.
il simbolo del male
Sette. «Buonasera». La voce gentile, il sorriso che sembra pronto a offrire un bicchiere di vino, il solito, rassicurante signor Carlo, il vicino di casa. «Scusi avvocato se ho dovuto, diciamo così, trattenerla, ma non volevo che se ne andasse in giro». «Questo è sequestro di persona, lo sa?». Candida oppone una resistenza normativa, ma impacchettata com’è, è una opposizione, lo sa bene, senza forza cogente. «Certo, avvocato. Ma troveremo un accordo, spero, e questa faccenda sarà dimenticata», dice il signor Carlo, salvo aggiungere un «o no?», detto con un sibilo che raggela Candida. «Mi dica, avvocato, quando ieri è venuta da me cosa si proponeva di fare?». Candida tace. Non lo sa, non ne ha idea. Voleva tornare a dare un’occhiata, ma perché? Non era più facile andare alla polizia? «Glielo dico io», riprende il signor Carlo come se leggesse nei pensieri di Candida. «Lei ha sentito una forza, un’attrazione verso il male cui è impossibile resistere. Questo», e dalla mano destra del signor Carlo adesso compare la mazza ferrata, lucente, dura, brillante, «è il simbolo del male, della morte, della sofferenza, della disperazione. Immagini quante persone sono state uccise con un colpo di questa mazza. La osservi, la prego, la guardi bene da vicino». Il signor Carlo sfiora con l’acciaio il volto di Candida, preme sulle guance, sulle labbra. Candida non fiata, sente il freddo della lega di ferro e carbonio, il peso del bullone di ferro. «Quando la settimana scorsa il suo gatto si è introdotto nel mio appartamento passando dal terrazzino che abbiamo in comune, lei lo ha seguito e dalla finestra, prima di bussare sul vetro per richiamare la mia attenzione, deve avermi visto proprio mentre stavo ammirando questo oggetto. Non ne ero sicuro, ne ho avuto la certezza solo quando ieri è tornata qui. Allora le ho versato un po’ di sonnifero nel bicchiere di vino e mentre dormiva ho trovato la foto nel suo smartphone. E adesso mi dirà se l’ha mostrata e ne ha parlato con qualcuno». Candida tace. «Parlerà, glielo assicuro», sibila l’uomo. «È stato lei a rubarla dalla Risiera, perché?», si rianima Candida. «Perché è mia. Apparteneva a mio padre. Sa chi era? In quel ridicolo processo della Risiera è stato definito il boia di Treblinka. Aveva il compito di eliminare gli esseri inferiori: ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, quella roba lì. E lui lo faceva, era il suo dovere. Accanto a quelle fosse piene di cadaveri lividi, nerastri, una massa di carne che imputridiva, lo sentivano ripetere “cosa dobbiamo fare di tutto questo letame?”. Purtroppo io non ho molti ricordi di lui», continua il sequestratore di Candida. «Con la mamma, che aveva conosciuto a Trieste quando era stato trasferito alla Risiera, è rimasto poco. So che dopo la guerra è andato in Paraguay. La sua mazza ferrata è l’unica cosa che mi resta», dice guardando l’oggetto. «La sua storia mi fa orrore - attacca Candida - lei è stato abbandonato dal padre e ne ha fatto un mito folle e sanguinario, lei è un pazzo». «E presto un assassino, almeno secondo il suo codice», aggiunge il signor Carlo. «Ma sono punti di vista. E il mio è naturalmente superiore. Non foss’altro perché lei è seduta e io in piedi davanti a lei». Gli occhi del signor Carlo sono due fessure di ghiaccio mentre guarda Candida. La mano stringe l’impugnatura, il cervello sta per dare ai muscoli l’ordine di sollevare il braccio quando in un angolo della stanza si illumina una lampadina rossa. Il campanello, mormora il signor Carlo. Poi a Candida, prima di uscire per andare alla porta: «Qui nessuno può sentirla, per cui gridi pure, la stanza è insonorizzata».
il destro di valdo
Otto. «Scusi per l’ora». Valdo sorride e si sforza di mantenere un’espressione serena, ma dentro ribolle di ansia e paura. «No, non l’ho vista», risponde il signor Carlo alla domanda su Candida. «D’accordo». Valdo fa per andarsene, ma torna sui suoi passi. «Un’ultima cosa». «Dica», sbuffa il signor Carlo, un attimo prima che la sua faccia si deformi come un cartone sotto la sventola del destro di Valdo, appesantito da un tirapugni di ferro. L’uomo a terra, fuori combattimento tra i gemiti, Valdo si slancia nell’appartamento, lo perlustra e giunge a una porta chiusa, la apre e trova Candida versione salame che, mandato giù senza farsi vedere un sospiro che la sgonfia più di una settimana alle terme, gli dice: «Ma quanto ci hai messo?».
Nove. Dopo che i carabinieri hanno portato via il signor Carlo e sequestrato la mazza ferrata, finalmente i due soci, ripuliti da paure e sudori e con un gin tonic davanti, si possono rilassare. L’happy end vuole però una postilla, se ne incarica Valdo che spiega come è arrivato fin là. «Il merito è di Zeus. Ho pensato che non poteva essere andato lontano e ho chiesto a un amico che lavora in comune notizie sul tuo vicino di pianerottolo. Ha fatto un controllo: cittadino austriaco, nato a Trieste subito dopo la guerra, poi scuole in Austria, ha fatto un cambio di cognome, ma quello precedente era stato cancellato. L’ho messo in collegamento con il libro che leggevi e con la mazza ferrata di cui avevi chiesto ad Armando. Poi sono corso qui. Quando gli ho visto gli occhi, non chiedermi perché, mi è scattato qualcosa. Certo, ho rischiato, ma ti ho salvata». «D’accordo, ma non darti troppe arie da Rambo», sbadiglia Candida. «Piuttosto vediamo se in tv danno un bel film d’azione». —
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