Un pizzico di giusquiamo e il veleno fa tacere per sempre l’insopportabile mogliettina

Per descrivere Marcantonio Piombo in due parole, basta dire che era pesante come il suo nome. Una pesantezza del corpo, con quei centoventi chili per un metro e novanta di altezza; e volendo approfondire si può aggiungere: ma più ancora dello spirito. Già, più che la stazza era la vita a pesargli addosso, e la fatica che mostrava in ogni atto, la noia verso tutto, erano i segni di quella che noi chiamiamo accidia e gli anglosassoni spleen. Proprio l’opposto di sua moglie Corinna, piccola magra e vivacissima, e tanto loquace quanto lui era laconico. L’aveva conosciuta un anno fa alla vernice di un parente pittore a cui non aveva potuto sottrarsi, e a vedere quel cosino grazioso volteggiare da un calicetto a un quadro, così entusiasta davanti a quelle croste di cui lui non capiva un tubo e al frizzantino che a lui pareva acqua, beh, ne era rimasto colpito.

Chissà, si era detto, che non avesse trovato la donna capace di scuoterlo dalla sua annosa apatia, la compagna in grado di svelargli le bellezze dell’arte e i piaceri della vita... E dopo esser stato con lei a un concerto, ancora a due mostre e a una degustazione di vini a Pis’cianzi, il “chissà” era caduto e se l’era sposata. Che cieco era stato, che incauto! Perché ben presto, dopo neanche due mesi di matrimonio, quel che aveva preso per gioia di vivere e amore per l’arte e la bellezza, si era rivelato un bluff. Sua moglie era solo una piccola, insopportabile snob, una che s’ingozzava di “cultura” come altri s’ingozzano di profiteroles!
Il culmine lo aveva raggiunto l’altra settimana, quando si era messa in testa di andare a Milano per vedere L’Ultima Cena - «è l’anno di Leonardo, Marcantonio, dobbiamo colmare questa deplorevole lacuna!» - e dopo il Castello, il Duomo, la Scala, un pasticcino da Biffi e finalmente Santa Maria delle Grazie - non prima di aver fatto due ore di fila, aveva preteso di andare finanche al cimitero monumentale! Era stata la classica goccia. Lei straparlava come al solito, incapace di star zitta perfino in quel luogo dove tutto era silenzio, e lui, un po’ per sfinimento un po’ per distanziarsene, si era fermato davanti a una tomba con la statua di un angelo e ne aveva letto l’epitaffio: “Sposa, chi sprimer può quanto dolor ci costi/ non poter dir che sei ma sol che fosti”. E mentre ne ammirava l’impareggiabile sintesi, gli era venuto l’estro di sostituire la parola “dolor” con “gaudio”. Che collimava in pieno con ciò che avrebbe provato qualora Corinna da presente fosse diventata passato.
L’innocuo, se pur colpevole desiderio, a poco a poco gli si era fatto progetto. Per liberarsi da quella donna nefasta non gli restava che ucciderla. Non che non avesse pensato anche a soluzioni meno drastiche - era dal giorno dell’epitaffio che ci stava rimuginando, ma le aveva scartate tutte. Contrattare con lei il divorzio, impossibile: Corinna, da fervente cattolica qual era, vi si sarebbe opposta con forza, e lui non ne aveva abbastanza per tenerle testa. Inutile pure andarsene: intanto non avrebbe saputo dove, e comunque prima o poi lei lo avrebbe scovato, e allora apriti cielo! No, farla fuori era meno faticoso, e soprattutto più definitivo.
Soluzione drastica
Il problema era “come”... Accoltellarla o strangolarla gli ripugnava: odiava la violenza, buttarla dalla finestra non avrebbe funzionato, visto che abitavano al pianoterra, il gas domestico poteva provocare una strage... L’unica soluzione era il veleno: niente contatti fisici, niente spargimento di sangue. L’ideale. Ora bastava documentarsi... ovviamente in segreto, guai se Corinna lo avesse beccato, ficcanaso com’era, non era una ricerca da fare a casa.
E neppure nelle biblioteche pubbliche, per non lasciar tracce nella malaugurata ipotesi che ci fosse stata un’inchiesta. E veleni a lui noti, quali l’arsenico e il cianuro, si trovavano solo nei romanzi gialli, i funghi letali neanche sognarseli, non pioveva da mesi... Dal suo lontano passato scolastico gli tornò in mente la cicuta, ma la scartò subito. Aveva avvelenato Socrate: troppo nobile, Corinna non ne era degna; e poi era uguale al prezzemolo e avrebbe potuto sbagliarsi. Però quella di cercare il veleno in natura era un’ottima idea: intanto non occorreva comprarlo, e l’estate era la stagione giusta. Riprese a frugare nei suoi ricordi scolastici. La digitale purpurea, “il fior di morte” cantato da Pascoli? Il tasso citato da Giulio Cesare nel “De bello gallico”? No, e per la stessa ragione di prima: l’una troppo poetica, l’altro troppo eroico. E tutto a un tratto gli venne l’illuminazione. Il giusquiamo, il veleno delle streghe! Più appropriato di così...! A regalargliela era stato nientemeno che Shakespeare, cioè uno che di avvelenamenti se ne intendeva, eccome.
l’aiuto di shakespeare
“Mentre nel mio giardino, un pomeriggio/ siccome d'uso, io mi giacevo in sonno,/ in quel sicuro sonno,/ tuo zio, giusto in quell'ora mi sorprese/ col maledetto succo del giusquiamo/ entro una fiala chiuso. Negli orecchi,/ quel venefico filtro mi versò...”. Si era riletta la scena in cui lo Spettro rivela ad Amleto com’era stato assassinato dal re usurpatore, e se ricordava bene il nome della pianta, non aveva idea di come fosse fatta né dove trovarla. Però sapeva dove documentarsi restando nel contempo anonimo... Nel Civico Orto botanico, aperto al pubblico dalle nove alle tredici senza l’obbligo di dare il nome.
Il giorno dopo, approfittando che Corinna era andata dall’estetista e ci sarebbe rimasta tre ore buone, salì in macchina diretto a San Luigi. Posteggiò nei pressi del Boschetto, attraversò via Marchesetti ed entrò in quel museo all’aperto dall’ingresso secondario. Non ci metteva piede da quando in terza media lo avevano portato con la classe, e ricordò quanto lo avevano deluso proprio le piante velenose, che non avevano niente di tremendo. Guardò il dépliant preso all’ingresso. Adesso pareva più grande e meglio strutturato di allora, con tanti percorsi tematici segnati da vari colori: arancione per le piante spontanee, verde per quelle d’appartamento, blu per le officinali... C’era perfino un’area dedicata ai fossili del Carso che gli sarebbe piaciuto vedere, se non ci fosse stato quel caldo. Si sedette all’ombra del gazebo e si asciugò la fronte. “L’orto dei veleni”, la sua meta, sul dépliant era segnato in viola e mostrava un tragitto lunghissimo tutto a zig zag. E lui era stanco già prima di cominciare... Infine si fece forza e si alzò. E ansimando e grondando sudore prese il sentiero che gli interessava.
Eccola, finalmente: “Giusquiamo, pianta velenosa mortale”, come diceva il cartello. Ma che faticaccia! Elleboro, peonia, euforbia, colchico, mughetto... Aveva dovuto farsi l’intero percorso prima di scovarla, mai più avrebbe pensato che ce ne fossero tante: addirittura più numerose delle piante innocue! La osservò con attenzione: fusto alto, foglie grandi e pelosette, fiori gialli piuttosto piccoli... “Fiorisce d’estate su terreni ricchi di letame, o presso vecchi muri e vecchi ruderi di campagna”. Scrisse il nome sul dépliant e si allontanò soddisfatto, ormai ne sapeva abbastanza. Compreso il luogo dove l’aveva già vista.
E aveva visto bene, e adesso stava portando a casa quella pianta velenosa in tutte le sue parti, dai fiori alle radici. Sufficiente a stendere un bue, figurarsi quella pulce di sua moglie! Era andato a raccoglierla fin oltre Pese, tra i ruderi di una vecchia casa all’inizio del sentiero che porta al Kokoš; posto che ricordava benissimo, incluse quelle piante dalle grandi foglie pelosette, essendoci rimasto almeno due ore ad aspettar Corinna, salita alla cima da sola, perché, gli aveva detto, lui le rallentava la marcia. Come dimenticarsene, l’unica volta che lo aveva lasciato in pace!
Si affrettò in cucina: lei sarebbe arrivata tra poco, doveva sbrigarsi. La lavò con cura, la tagliò a pezzi e li ficcò nel tritatutto: un aggeggio dalla potenza infernale che in un attimo li ridusse in poltiglia. Quindi versò l’intruglio nella zuppa di Corinna già pronta in frigo, e mise sul fuoco l’acqua della pasta per sé. E mentre aspettava di buttarla, benedì una volta tanto la loro diversità, così profonda e radicale. In quanto a pranzo lei mangiava solo zuppa e lui solo pastasciutta.
Se l’era sorbita fino all’ultima cucchiaiata, e senza smetter di blaterare. «E dove sei stato, cosa hai fatto tutta la mattina, scommetto che hai poltrito come al solito...». Era rimasto in silenzio: sarebbe ben giunto il momento in cui il veleno l’avrebbe fatta tacere! E infatti, dopo neanche mezz’ora, ecco il primo sintomo: un urlo così selvaggio da farlo quasi cader dalla sedia! Poi, in una sequenza agghiacciante, aveva sbarrato gli occhi, tremato e sussultato, per poi piombare a terra tutta rigida. Ci aveva messo parecchio per riaversi, dopotutto non era mica un bruto, e una volta riacquistata la calma le era andato vicino e l’aveva toccata: dapprima solo sfiorandola e poi scuotendola più volte. Ma lei non si era mossa.
Cerchio perfetto
Aveva concluso la prima parte del piano e adesso stava per concludere la seconda, l’ultima. E meno male, si disse asciugandosi la faccia, non aveva mai faticato tanto in vita sua! Diede l’ultima palata, e con la vanga di piatto spianò la terra che ricopriva la fossa. La tomba di Corinna, confusa tra quelle tombe antiche che nessuno andava più a visitare... Ah sì, scegliere il cimitero austroungarico di Aurisina era stata un’idea geniale! Geniale e simbolica: tutto era cominciato da una tomba e in una tomba era finito... Un cerchio perfetto, come quella grande dolina che le chiudeva, cinta da un muretto che si scavalcava ridendo, tanto era basso. Ci si sedette sopra. Era proprio esausto, meglio aspettare un po’ prima di rifare quel viottolo pieno di buche, e così stretto da lasciar passare a malapena una carriola, figurarsi la macchina. Se almeno si fosse portato una torcia! Cominciava a far scuro, e se non stava attento... mancava solo che inciampasse e si rompesse una gamba! In quel luogo deserto! Si voltò verso l’angolo dove aveva sepolto Corinna, seminascosto da tante croci di pietra. Un luogo di morti... Rabbrividì e fece per alzarsi, ma una fitta improvvisa lo bloccò. Si premette il petto, attanagliato da un dolore che cresceva e gli impediva il respiro... Spalancò la bocca a cercar l’aria, in preda a un terrore mortale. Infine crollò a terra, gli occhi verso il cielo che si stava oscurando.
«Ghe digo che el xe qua, nel zimitero dela Grande Guera... Ma cossa la vol che sapio de quando che el xe morto! No gavé la Scientifica? E 'lora rangeve soli!». A Marino Sossi, pensionato del Crda e triestin patoco, cominciavano a girare i cosiddetti. Era da mezz’ora che tentava di spiegare a quel tùmbano dove aveva trovato il corpo! Dall’altra parte del filo - per così dire - l’appuntato Vito Lepore, al Comando carabinieri di Aurisina appena da un mese, ascoltava stranito il racconto dell’uomo, capendone sì e no la metà. «Mi sta dicendo che ha rinvenuto il cadavere di un uomo in un... cimitero?». «Sì, quel austroungarico dela Prima guera, dove che xe anca mio bisnono Libero che el ga combatù sui Carpazi, povero. Iero qua per taiar l’erba, che se no fussi per noi volontari andassi tuto in malora, e go trovado el morto. E quel che no me sconfifera xe la pala che 'l ga vizìn, come che ghe go dito».
Questione di sfortuna
Inutile tentar di tradurre quell’ostrogoto, pensò scoraggiato Vito Lepore. Ma una cosa aveva capito, che l’uomo era sincero, glielo diceva l’istinto. «Adesso veniamo. Lei resti dov’è, d’accordo?». «Qua son e qua stago». Marino Sossi chiuse il cellulare e guardò ancora il corpo riverso. Chissà chi era e che ci faceva in quel cimitero... con una vanga! Era questo che non gli batteva. Perché portarsi dietro quell’arnese pesante, se non per scavare? E intanto che aspettava i carabinieri, decise di andare a verificarlo. E non ci mise molto a scoprire quell’angolo bruno tra il verde dell’erba, la terra smossa di fresco... Si allontanò soddisfatto, aveva intuìto giusto. Adesso toccava a loro scoprire cosa c’era sotto.
E così, grazie alla segnalazione di un pensionato triestino e al carabiniere meridionale che, pur capendolo poco o niente, gli aveva creduto, le tessere di questo macabro puzzle - il cadavere trovato nel cimitero austroungarico, la vanga usata per sotterrare l’altro - una volta messe al loro posto, portarono alla soluzione del caso. Un’altra donna uccisa da un uomo, un altro femminicidio, e non stupisce che quell’uomo fosse il marito. Ciò che stupisce invece, per chi avesse conosciuto Marcantonio Piombo, è la complessità del disegno architettato per far fuori la moglie. Lui, che in tutta la sua vita era stato così apatico! Un disegno perfetto, se non fosse per due piccole negligenze... l’una, essersi dimenticato in tasca il dépliant dell’Orto botanico col nome della pianta con cui l’avvelenò, e l’altra, di morir proprio dove l’aveva sepolta. Ma quest’ultima, a onor del vero, la chiamerei piuttosto sfiga nera. —
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