Massimo assomiglia così tanto al marito. E il déjà vu è mortale

Penultimo giorno. Lui è così bello! Neanche bora e pioggia, che sembrano non smettere mai, riescono a scalfire il suo fascino. È passato frettoloso dall’altra parte del Canale, sulla via Rossini, come se fosse in ritardo a un appuntamento. Penso con raccapriccio che devo avere un aspetto orribile coi capelli come spighette bagnate che mi ricadono sulla fronte e il trench zuppo. Per fortuna non mi ha vista, nascosta come sono, al riparo dal freddo pungente, nel vano di un portone della via Cassa di Risparmio. Come al solito è entrato allo Schmidl. Palazzo Gopcevich mi sembra spettrale con il sottofondo dei lugubri rumori delle barche che nel Canale cozzano le une sulle altre, quasi volessero scappare dalla ferocia del cielo impazzito.

Ieri mi sono fatta coraggio, dopo aver fatto il biglietto, sono entrata nel museo e ci siamo parlati di nuovo. O meglio gli ho parlato io con una scusa. È stato poco affabile e mi ha congedata bruscamente perché aveva impegni dall’altra parte della città. Una balla, visto che lui, Massimo, lavora allo Schmidl e di certo non può andarsene a zonzo. È il vicedirettore del Museo Teatrale, almeno credo, perché l’ho scorto mentre usciva da un ufficio della dirigenza.
Lo ammetto, sono mesi che lo spio, eppure non sono una stalker. Semplicemente lo amo e credo di essere riamata. Abbiamo litigato tante volte e anche questa ci riappacificheremo. Con un brivido rammento i suoi pettorali abbronzati e guizzanti. Sogno spesso il suo corpo vigoroso sopra di me, i nostri respiri all’unisono e poi lui che mi penetra con forza, quasi con violenza, come piace a me e sicuramente anche a lui. Ridacchio tra me e me come una scema, mentre i passanti infreddoliti mi scorrono accanto come le immagini sfocate di un film degli anni Quaranta in cui sono interprete e spettatrice allo stesso tempo.
i triangoli non fanno per me
Mia madre, sempre pronta a criticarmi visto che mi detesta, dice sempre che mi fisso creando situazioni inesistenti. «Ida, sei malata di testa come tuo padre!» ripete sino alla noia.
La odio quando blatera dicendo male parole contro quella che crede una mia fantasia. Ma lui esiste, eccome! Bello come un dio! L’altra settimana però mi ha lasciata di sasso. L’ho visto in compagnia di una ragazza alta, biondo ossigenata, con una minigonna inguinale che sarebbe andata bene a una bambina di cinque anni. Pacchiana e volgare. Mi sono sentita tradita, avrei voluto cancellarla come fosse un disegno mal riuscito su una lavagna. Ho così deciso che avrei finalmente chiarito tutto, i triangoli non fanno per me e quella oca doveva sparire! Pensavo di lasciare a Massimo una lettera alla biglietteria dello Schmidl, ma l’addetto, fissandomi con uno strano sguardo, insisteva nel dire che tra i dipendenti non c’è nessun Massimo.
Sono rimasta con la bocca spalancata come un pesce andato a male e infatti puzzavo per colpa del sudore che, malgrado il freddo, mi colava dalla fronte. Il tizio, che non mi staccava quel suo strano sguardo di dosso, aveva aggiunto maligno: «Penso di aver capito a chi si riferisce, ma come le ho detto si tratta di un visitatore. Accompagna la sua ragazza, Maya, che sta ultimando una tesi sul nostro museo. Viene quasi ogni giorno». Il tizio mi stava propinando fandonie, mi ero detta, così dopo aver fatto il biglietto, ero salita con l’intenzione di sorprenderli in flagrante. Come una furia mi ero diretta verso quello che immaginavo fosse l’ufficio di lui. Con sorpresa avevo scoperto che era una saletta espositiva mignon. In un angolo c’era la bionda accovacciata su un seggiolino con sulle ginocchia ossute il pc portatile. Ma del mio uomo neanche l’ombra. Avevo immediatamente avuto come una premonizione incontrando la fissità degli occhi del burattino conte Fratta che, da una delle teche in vetro, arcigno sembrava giudicarmi attraverso le spesse palpebre socchiuse. “Vattene, vattene”, sembrava dire sguaiato l’odioso pupazzo.
«Cosa vuole da me?»
A fatica avevo trattenuto un moto di spavento mentre l’usurpatrice bardata come un semaforo, gonna rossa e camicia verde, mi guardava con tanto d’occhi per poi blaterare con voce strozzata: «Cosa vuole da me?». Non l’avevo lasciata finire. A me chiedeva cosa volevo e lei cosa faceva nell’ufficio di lui? «Cerco Massimo!» avevo urlato con quanto fiato avevo in gola. Ma non potei aggiungere altro che due braccia possenti mi agguntarono, trascinandomi giù per le scale, verso l’uscita. La stronza aveva chiamato la sicurezza.
La furia della bora scura tocca perlomeno i novanta chilometri orari. Attorno a me ballano neri ombrelli rotti che sembrano impegnati in una danza di morte coi passanti rinsaccati nei loden o avvolti in piumini dai colori cupi dell’inverno. Fa talmente freddo che i ricordi pendono nel mio cervello come ghiaccioli e solo il pensiero di come potrei ucciderla mi scalda.
Il tempo infatti si è ulteriormente deteriorato e, in sintonia col mio umore, dal cielo stanno scendendo scintille di neve gelide che non sono più pioggia, ma piuttosto ghiaccio, e che colpiscono il mare come proiettili trasparenti. Eppure so di piacergli, mi ripeto, e se non fosse per quella con le calze a rete, noi fileremmo d’amore e d’accordo. Insomma la nostra storia decollerebbe e la notte non dormirei da sola, ma staremmo assieme nel grande lettone a farci le coccole. Al mattino Massimo, viziandomi, mi porterebbe il caffè a letto, dopo avermi salutata con un bacio.
Tornata a casa ho raccontato, da quella stupida che sono, i miei patemi d’amore a mamma, ma come sempre, fredda e distaccata, mi ha ammonita. «Stai coi piedi ben piantati a terra! Non ti basta quello che ti è già successo con tuo marito Massimo?». Amareggiata me ne sono andata a letto, ma un incubo mi ha svegliata. Avevo sognato ancora il vecchio edificio di via Torrebianca di lui, che mi procura sempre un fastidioso déjà-vu perché somiglia in modo sovrapponibile a quello in cui abitavo col mio ex marito. Dopo quell’incubo, al primo albeggiare avevo ancora il cuore in gola, ma cercando di far prevalere il buon senso mi sono detta che per dipanare il groviglio di ragnatele vischiose che ho in testa -una confusione tra passato e presente- c’era solo un modo: dovevo andare in quell’appartamento!
Ultimo giorno. Non c’è niente che mi leghi a questo edificio, mi ripeto insistentemente, mentre suono alla sua porta. Ore prima, svegliandomi col solito pensiero ossessivo di Massimo, avevo scorto nello specchio del bagno una cozza con delle pieghe amare agli angoli della bocca e il trucco sbavato che non mi ero curata di togliere la sera precedente. Annusandomi le ascelle puzzolenti, mi ero detta che prima o poi dovevo assolutamente fare una doccia, sembrava che non mi lavassi da un mese, il che era vero. Mi ero anche ripetuta a mo’ di consolazione che il mio aspetto fisico aveva poca importanza perché, se uno ama, certe sottigliezze non contano.
Così, alle dieci ero già di vedetta nei pressi del museo dove l’avevo visto passare come al solito.
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