Una raffica di pugnalate e la misera vita da prostituta di Katia finisce su un letto

Le è sempre piaciuto svegliarsi molto presto. E soprattutto d’estate. Da quando Pietro le ha prestato l’appartamento di via San Lazzaro scende verso le sei e mezza e si immerge nel mondo che piano piano si rimette in moto nell’aria ancora fresca. Qualche furgone che scarica, i giornali fuori dall’edicola, passanti veloci con il viso muto, qualche bella signora in età con una borsa da mare sotto il braccio. Le piace seguire i passi altrui ed è così che ha riscoperto il Pedocin all’alba. Si bagna veloce, felice di sentirsi il mare addosso e poi osserva divertita le fenicottere cicaleggianti a bagno fino a metà coscia. Se ne andranno molto presto. Per evitare il caldo, comperare il pesce, prendere al volo un pezzo di messa…

Così ha seguito un signore piegato su due bastoni nel suo breve viaggio quotidiano tra pane e giornale e una giovane cinese con un bambino trascinato verso una giornata nel retrobottega di un negozio affollato. Così ha ritrovato la sua gonna. Addosso a una donna alta, svelta e molto magra uscita da un portone di via Valdirivo. Ha provato vergogna. Come ogni volta che le capita di portare qualcosa alla Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin e anche se non è una che spreca. Ha molto amato quella gonna e ha amato il periodo in cui l’ha indossata quasi ossessivamente. Morbida, colorata soprattutto di rosa e di verde. Una gonna danzante come lei si sentiva in quei giorni, un nuovo amore come un vento in testa, il lavoro, gli amici allegri e affettuosi come un bicchiere di malvasia. Poi l’ha tenuta a lungo in un cassetto.
Fino a capire che quel tempo era passato, l’amore anche, gli amici per fortuna no. Non tutti almeno. E mentre cammina e insegue l’orlo della sua memoria, pensa alla cena di domani. Come sempre ha esagerato, troppa gente, la casa è piccola e male organizzata, casa da scapolo, d’altra parte, anche se lui forse vorrebbe… ma adesso è via e lei non vuole pensarci. Ripassa il menu che sarà ebraico per via di un piccolo quaderno che la mamma ha deciso di lasciarle in eredità anticipata. Non è riuscita a cavarle chi fosse quella zia Miriam, ma ha deciso di renderle onore comunque. Una bella grana. Deve procurarsi collo di tacchino, azzime, uva, noci. La prossima volta, per par condicio, preparerà uno dei suoi famosissimi tajin.
il sospiro della storia
La donna, la gonna che la avvolge svolazzante, attraversa veloce piazza Sant’Antonio, si ferma a guardare una vetrina, sembra notare per la prima volta le tre aquile che uccidono il serpente Napoleone, poi va a prendersi un cappuccino in un bar lì vicino. Daria sceglie un succo d’arancia, non ha mai amato il caffè e in quel bar preferisce passare la sera per un buon bicchiere. Poi la gonna entra in un ampio, pesante portone di via Imbriani. Museo Morpurgo. Nessun ricordo preciso, solo una sensazione, ma sa di esserci stata. Molto tempo prima, con dei nipoti ancora piccoli.
Nei giorni seguenti aspetta la donna, ma per una settimana non la incontra più. Nel frattempo cucina, legge molto, mette a posto alcune fotografia cercandone una in cui porta quella gonna verde e rosa. Non ne trova. La donna ricompare il martedì dopo. E siccome il Museo Morpurgo è aperto solo quel giorno della settimana Daria decide che è lei a pulirlo e che è ora di tornare a visitarlo.
Perché non oggi? Non è in servizio, una volta tanto, e il cielo cupo le consiglia comunque di rinunciare al mare. La sensazione riemerge appena varca il portone. Manca l’aria. Non c’è un filo di luce naturale. Ma c’è, forte, e come è giusto soffocante, il sospiro della storia. Chiede qualche informazione al volontario che tiene aperta questa casa intatta di una vecchia famiglia ebrea triestina. Mentre lui spiega a un gruppo di turisti veneti che vale la pena di vedere anche il museo al piano di sotto, che si chiama di Storia patria, ma che a dispetto del nome ha più a che fare con arte e tessuti che con la guerra, lei spia il libro che sta leggendo: Robecchi, “Follia Maggiore”. Un bel giallo. Le sembra ancora più simpatico. Ma come sempre preferisce vedere le cose da sola.
È un posto magnifico, greve di benessere, carico di oggetti, libri, quadri… Prova a immaginare Paolo e Francesca Morpurgo e i loro figli muoversi per questi 600 metri quadri. 1878, legge sul piccolo depliant, l’abitudine a ricevere ospiti, organizzare concerti, dibattere temi scientifici. Esce con tanta voglia di saperne di più, respira forte le prime gocce di pioggia. Il martedì dopo è fuori sede, quello dopo ancora segue la donna solo fino al bar. Deve essere in ufficio presto. Forse, si dice, forse se fosse arrivata fino a quel portone…
Un gesto gentile
La chiamata scatta poco dopo le nove. Mollare tutto, un cadavere in via Imbriani. Si porta Bozzi, giovane, ancora entusiasta. La donna è composta sul letto di quella che, se ricorda bene, deve essere stata la stanza della governante. La sua gonna verde e rosa intrisa di sangue, le mani raccolte sul petto con cura. Un gesto gentile, un gesto pensato... e una fitta di pugnalate. Sangue trascinato dall’atrio. «Le ha perfino chiuso gli occhi il bastardo» dice Bozzi con voce strozzata. Si sente che vorrebbe averlo tra le mani. Il bravo volontario non ha molto da dire: la porta era aperta e poi non gli è restato che seguire il sangue. Daria osserva a lungo la donna. È appena un po’ truccata, ancora giovane, di una magrezza che adesso le pare sofferente. La sua storia ce l’ha nella mani e neanche le unghie ben laccate riescono a nasconderla. La pelle è rosicchiata fino a una miriade di minuscole ferite. Il viso contratto ha qualche durezza, i capelli sono chiarissimi. Una donna dell’Est? Nella borsa il permesso di soggiorno per una certa Malka dal cognome difficile. Ora dovrà scoprire tutto, di lei, e di questo le chiede scusa sottovoce. Al resto penserà la Scientifica.
All’indirizzo del permesso di soggiorno un appartamento sfitto da molto, venduto da poco, ora in ristrutturazione. Neppure la più vaga memoria di una Malka. Arriva allora alla casa da cui l’ha vista uscire solo poche settimane prima e trova subito due cognomi stranieri. Suona e aspetta a lungo. «Polizia», dice, e ascolta un lungo silenzio. Poi uno scatto. Entra con Bozzi, ma ha già pensato che lo lascerà sul pianerottolo. Si sta portando addosso troppa rabbia. La donna che le apre al secondo piano ha l’aria molto stanca e una bella vestaglia a fiori. Non scoppia a piangere subito. «Katia - sussurra - Katia». La fa accomodare sull’ennesimo divano Ikea, offre un caffè, poi si spezza. «Lo sapevo, lo sapevo. Povera amica mia». L’accento è ancora forte, ma parla con proprietà, deve aver studiato l’italiano con cura, con passione. «In che senso lo sapeva?» coglie Daria al volo. «No, no, non intendevo… mi scusi commissario. Ho fatto il turno di notte all’ospedale, ci sono state delle urgenze brutte e non sono riuscita a dormire». Chiede dettagli, forse vuole sviarla, dove l’hanno trovata, come, chi. «È successo poche ore fa e ho pensato di incominciare da qui perché mi era capitato per caso di vederla uscire da questo portone». Della gonna ovviamente non dirà nulla.
Dunque Katia non era qui da molto, qualche mese appena, si erano conosciute per caso mentre abitava ancora in una piccola pensione vicino alla stazione e cercava lavoro. Al suo Paese aveva studiato anche lei da infermiera, ma per qualche ragione che non le ha mai detto preferiva fare pulizie.
Si, da quello che sa aveva le carte in ordine e veniva da Torino. E prima ancora da qualche paesino del sud della Polonia di cui non ricorda il nome. Non erano quindi compatriote «ma sa commissario, tutti noi esuli facciamo parte della stessa nazione. E sappiamo che dobbiamo aiutarci perché abbiamo buona memoria di quel che abbiamo passato. Io oggi, nostalgie di casa a parte, sto bene e anche lei aveva qualche speranza. Anche se secondo me era troppo ingenua, un’illusa come tante di noi». Ovviamente si tratta di un uomo. Sa che era sposato. Le pare che si chiami Massimo e all’improvviso sembra che abbia fretta di metterla fuori di casa.
Nemmeno l’ombra
È facile trovarlo. Al bar sanno tutti chi è e sanno che aveva una storia con Katia. Ma dicono che a parte questo, cioè a parte una moglie e due figli piccoli, Massimo è un brav’uomo. Del resto Daria sa che sarebbe troppo facile, che i gialli non funzionano così. L’amante straniera che incomincia ad avere pretese, a minacciare di fargli perdere qualcosa a cui tiene o di cui ha bisogno... ma è una storia troppo banale. Lo convoca comunque e lo detesta subito, perché le pare che alla notizia provi un po’ di sollievo. Si conoscevano da poco, si erano «incontrati», dice in tono ammiccante, solo un paio di volte. Dice che anche per lei era una cosa da nulla. Ne sembra sicuro e lei lo detesta ancora di più. Chiede, naturalmente, se sarà necessario che la moglie lo sappia, avrebbe chiuso in tutti i casi. Solo un momento di debolezza, per lui i figli, la famiglia sono importanti... Chiede, naturalmente, se sarà necessario che la moglie lo sappia. Lei non lo rassicura, almeno questo. In tutti i casi quel giorno era via per lavoro, fuori Trieste in un alibi inattaccabile. Peccato.
La Scientifica non ha trovato niente e adesso lei torna al museo da sola. Fa caldo e l’aria le pare ancora più pesante. Prova un leggero senso di nausea, ma non è un posto in cui sedersi, questo. Cammina allora piano per le stanze sontuose, sposta oggetti che non dovrebbe toccare, solleva i tendaggi pesanti. Il biglietto del treno sta un po’ impolverato sotto al letto. Ci sfugge sempre qualcosa, pensa. Torino-Trieste, 5 agosto, il giorno prima del delitto. In un angolo una macchia di sangue. Grande indizio, sorride ironica alla sua immagine riflessa in uno specchio sfregiato. Praticamente inutile. Fanno tutto quello che possono fare. Nel paesino polacco nessuno sa niente di lei da quando è partita «per fare fortuna». I genitori piangono, il fratello stringe i pugni, «avrei dovuto fermarla». No, non gli ha mai mandato neanche una riga, neanche un euro. Del resto era sempre stata un po’ strana, taciturna, troppo indipendente. E poi Torino. Ma anche lì sembra che nessuno l’abbia mai guardata. Neppure l’ombra del suo passaggio.
rabbia da impotenza
Così Daria legge, cucina, si tormenta. Con la prima bora annusa l’inverno e le sale l’ennesima rabbia da impotenza. Ogni tanto Bozzi la sorprende: «Dobbiamo fare qualcosa, una persona non può morire così». No, certo. Lei non è una che molla... ma a volte non si può far altro che aspettare. È una prima sera di freddo quando incontra l’amica di Katia per strada. Scambiano due parole, lei è ingrassata, forse incinta. Non pare felice. Di Katia chiede solo: «Novità?». E Daria si ascolta scusarsi, sono a quel famoso punto morto, hanno provato tutto il possibile ed è strano, strano, non si riconosce, ma le salgono e lacrime agli occhi. L’altra la guarda in faccia solo per un attimo e non ci sono più parole. La saluta con una stretta di mano appena accennata poi riprende a camminare con addosso una grande tristezza per tutte le ingiustizie del mondo, per ogni solitudine, per tutto quello che non può fare. Gira un angolo e se la sente alle spalle all’improvviso. Le parole una corsa prima di pentirsi: «Commissario, le devo dire una cosa».
«Era primavera tardi e sono tornata a casa prima perché stavo male. Li ho sentiti da dietro la porta, non urlavano proprio, ma erano agitati in due diversi italiani stentati e lui le chiedeva di tornare. “Non posso Mirko”, diceva lei. “Come puoi dire che mi vuoi bene e vuoi che torno a fare quella vita, tutta quella vergogna”. “Ma io ti ho aiutata, ti ho fatto il permesso di soggiorno. Ti voglio bene”. “Quale bene quale bene”, diceva lei. Poi c’è stato un lungo silenzio e lei ha urlato “Lasciami!”. Allora lui ha cambiato un po’ voce, era un po’ triste e un po’, non so, diciamo minaccioso. “Ti cercano sai”, le ha detto, “e se ti trovano è la fine per tutti e due. Pensaci ti prego, non stavamo male”. “Ma che uomo sei”, gli diceva lei, “che uomo sei”. Allora lui ha alzato la voce, ha detto qualcosa in una lingua che non conosco e se n’è andato. Non mi ha neanche vista. E io non sono entrata, capisce commissario. Non sono entrata e non gliene ho mai parlato. Mai».
I colleghi di Torino sanno di questo grosso giro di prostituzione, dicono che sono in ascolto, che sperano di bloccarli presto, che ci sono quasi. Di Mirko ne conoscono due. E le foto. «È questo, ne sono sicura». «Questo - le dice piano Daria - questo l’hanno trovato morto probabilmente per suicidio a fine settembre. E l’assassino vero, uno dei tanti assassini di Katia, è probabilmente molto lontano». E siccome la donna piange più forte aggiunge: «Dài, i colleghi di Torino sono bravissimi. Vedrai che prima o poi lo trovano». Adesso è più calma, lacrime senza rumore, e Daria non riesce a tenersi dentro quella domanda. «La gonna che Katia portava sempre, quella verde e rosa che aveva addosso quando l’hanno uccisa.. Sai dove l’ha comprata?». «Era bella vero? Gliel’ho regalata io. Gliel’ho portata l’ultima volta che sono stata al mio paese. Molto, troppo tempo fa». —
Riproduzione riservata © Il Piccolo