Il grande amore di Carlotta e Angela si paga a caro prezzo

“Un corpo senza vita” hanno detto al telefono dal castello e due auto della polizia corrono nel traffico Ai piedi della sfinge c’era qualcosa che sembrava un sacco di stracci

“Ricordo come fosse ieri” è una frase fatta, e mai come oggi mi è sembrata così vera. Ci sono ricordi che non si cancellano, restano vividi come dipinti su una tela. Ricordo ancora quel giorno, era autunno, la bora soffiava facendo sbandare l'auto nella quale viaggiavo insieme al mio comandante. Avevo vent'anni ed ero da poco entrato in polizia. Era una tradizione di famiglia, poliziotti lo erano stati i miei genitori e i miei nonni. Io avrei voluto studiare arte, ma non ci fu modo di sfuggire al mio destino. Tradizioni le chiamano. Io li chiamo orizzonti imposti. Non ero felice di essere finito a Trieste dalla mia città, Venezia, nella quale ero cresciuto e avevo studiato, frequentato musei e chiese per riempirmi gli occhi di tanta meraviglia.

Le gallerie dell'Accademia, nella quale sognavo un giorno di studiare, era diventata la mia seconda casa. Pensavo a tutto questo mentre l'auto correva nel traffico e il mio comandante imprecava contro chiunque non si facesse da parte all'urlo della sirena: “Sono tutti sordi? Ma che ha 'sta gente quando soffia la bora?”. E soffiava quel giorno, oh, se soffiava! 160 chilometri orari piegavano gli alberi e le persone, facevano volare le carte e correre i cassonetti come cavalli impazziti.

Dietro di noi urlava un'altra auto della polizia, con due miei colleghi con più anzianità ed esperienza. Ero quello che si dice un “novellino”, ingenuo, impaurito, spesso in difficoltà davanti a eventi più grandi di me. Stavamo correndo al castello di Miramare, sfrecciando sulle rive sotto lo sguardo curioso dei passanti. “Un corpo senza vita” ci avevano detto al telefono. Niente altro. Stavo per vedere il mio primo cadavere e la cosa mi turbava molto. Non sapevo cosa aspettarmi, come avrei reagito, se mi sarei comportato da poliziotto o mi sarei reso ridicolo, vomitando davanti a un corpo forse martoriato, sotto i sorrisi e le occhiate dei miei colleghi.

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Attraversammo il secondo ingresso del castello, dopo le scuderie, e ancora una volta mi sembrò l'ingresso di un castello delle favole. Non c'erano turisti, il vento era troppo forte quel giorno anche per loro. Mentre scendemmo dall'auto, dal castello uscirono alcune persone piegandosi contro vento per non essere scaraventate a terra. Era il personale che urlando e tenendosi per mano, ci accompagnò verso il parapetto che dava sul mare. “È là sul molo! Lo vedete?”. Guardai verso il basso e notai a fatica qualcosa che sembrava un sacco di stracci sbattuto dal vento alla fine del molo, ai piedi della sfinge di pietra che scrutava l'orizzonte. Scendemmo con cautela le scale che portavano verso il mare reggendoci alla balaustra di pietra. Poco lontano il mare ruggiva ed esplodeva contro gli scogli.

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Arrivammo al molo lottando contro il vento, cercando di evitare, per quanto possibile, gli spruzzi delle onde. Il comandante si inginocchiò accanto al corpo, girandolo con molta cautela. Ogni prova, nel caso ci fosse stata, era già stata spazzata via dal vento, dalla salsedine del mare e da un impiegato del castello che era accorso sul luogo dopo che una segretaria si era messa a urlare, vedendo da una finestra il corpo senza vita. L'uomo era sceso, aveva girato il corpo cercando di capire se c'era ancora una qualche speranza e poi era tornato al castello urlando anche lui dopo aver capito che non c'era più nulla da fare. Subito aveva chiamato in centrale, sconvolto. Al telefono non si riusciva a capire cosa dicesse, urlava in sloveno prima di rendersi conto che il mio collega non lo capiva. Aveva chiamato noi ma non l'ambulanza, convinto che fosse ormai inutile.

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PALLIDA STATUA

Quando il comandante girò il corpo vedemmo che era una donna molto giovane, sulla trentina. I capelli castani, fino a quel momento tenuti dal corpo, cominciarono ad agitarsi coprendo e scoprendo il viso, rivelando dei lineamenti dolcissimi e due occhi azzurri come il mare ancora aperti, con un'espressione talmente serena da lasciare senza parole. “Che contrasto assurdo” pensai, quell'espressione era così sbagliata, così fuori luogo. Provavo una sensazione strana nel vedere quel corpo immobile, una pallida immobile statua di una bellezza da togliere il fiato e quei capelli agitati dal vento, vivi come il mare. Era un viso quasi conosciuto, la guardai cercando di ricordare se l'avessi già incontrata in passato. Ma dove? Quando? Ero turbato, molto, e la mia mente, probabilmente, elaborava indizi senza senso. Notai una rosa rossa che galleggiava tra gli scogli, mossa dal mare e dal vento. Pensai quasi di prenderla, ma non volevo suscitare battute o commenti dei miei colleghi. Che avrebbe potuto significare una rosa? Era solo un fiore, portato magari dalla corrente o dal vento, di sicuro non poteva essere l'arma del delitto. Che idiota! Io e il comandante rimanemmo accanto al corpo della ragazza, quasi a proteggerla dal vento, fino a quando arrivò l'ambulanza. Arrivò con le sirene spente, nessuna fretta, nessuna corsa contro il tempo.

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Guardai i barellieri portare via il corpo con grande difficoltà. Pregai non accadesse nulla, che non scivolassero, che non cadessero, che non offendessero quel corpo in alcun modo con gesti sbagliati. Guardammo l'ambulanza scomparire senza dire una parola. Risalimmo la scalinata ed entrammo nel castello dove il personale era riunito in attesa di avere qualche informazione, di sapere qualsiasi cosa potesse mitigare lo shock di quelle ore. “Qualcuno di voi conosceva la ragazza?” chiese a voce bassa il mio superiore, quasi a fatica.

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“Non facciamo molto caso ai visitatori, sono così tanti che è impossibile ricordare qualcuno in particolare” rispose una ragazza minuta con degli occhiali enormi che parlava con la voce rotta dall'emozione. L'uomo che ci aveva chiamato, se ne stava in un angolo con un giubbotto appoggiato sulla spalle e un caffè caldo in mano mentre fissava il vuoto. “È ancora sotto shock” disse la ragazza, “Stava tremando e gli ho portato qualcosa di caldo”. Ci avvicinammo all'uomo lentamente, con l'idea di non turbarlo ulteriormente. Prima che il comandante gli rivolgesse la parola, l'uomo iniziò a parlare senza guardarci, continuava a fissare la parete davanti a lui “Io l'ho vista, era impossibile non notarla. L'ho vista alcune volte. Io lavoro in ufficio, qui, al piano terra, esco ogni tanto per una pausa o per fumare una sigaretta, e mi è capitato di incontrarla”.

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“Era da sola?” lo interrogò con discrezione il comandante. “Sì, sempre da sola, andava verso il molo da sola, non ho mai visto nessuno con lei”. Prendemmo nome e cognome del signore. Ci diede le sue generalità una segretaria, lui non riusciva a parlare e si chiuse in un nuovo silenzio. Era l'unico ad aver notato la ragazza, nessun altro seppe darci qualche altra informazione. Dopo aver requisito i filmati delle telecamere di sorveglianza, ce ne andammo in silenzio. Il comandante guidava lentamente, quasi fossimo una sorta di corteo funebre, come se quella ragazza, per qualche ragione, fosse diventata parte delle nostre vite. I giorni seguenti non riuscii a pensare ad altro, vedevo quei capelli agitati dal vento, svelare e nascondere il viso di lei, l'espressione dei suoi occhi, la grazia di quel viso.

Nessuno aveva denunciato la sua scomparsa, nessuno fu in grado di fornire la sua identità. L'esame autoptico ci diede qualche indizio, la ragazza era morta per un trauma alla parte posteriore del cranio. Non c'erano tracce di sangue sul luogo e neppure sui suoi vestiti. Niente di niente. Un colpo secco, molto forte, aveva provocato un'emorragia cerebrale e lei era morta, forse senza neppure rendersene conto, con negli occhi quell'espressione così, così...pura!

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I giornali riportarono la notizia di un incidente misterioso avvenuto a Miramare, niente altro. Niente foto, nessuna descrizione, a parte il fatto che la vittima era una ragazza sui trent'anni, forse straniera. Non so perché qualcuno pensasse potesse essere straniera. Il colore degli occhi? La forma del viso? Come se Trieste non fosse un crocevia di popoli, etnie, culture diverse. La visione dei filmati di sorveglianza del castello risultò utile, ma solo in parte. Nella gran confusione di riprese, persone e folle, che visitavano il castello ogni giorno, riuscimmo a individuare la ragazza, una, poi più volte, fino a creare una costante, un forma di abitudine quasi rituale.

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Guardammo attentamente le immagini di quella mattina: la ragazza era stata ripresa da tutte le telecamere, quella all'ingresso nel portone delle fiabe, quella nel piazzale, ma quella che inquadrava il molo era oscurata da un'impalcatura eretta qualche giorno prima per lavori di manutenzione. Vedemmo che era arrivata quel giorno come ogni venerdì ma niente altro. Vedemmo più volte i video delle settimane precedenti nei quali la ragazza arrivava, scendeva le scale, percorreva il molo e gettava una rosa in mare, rimaneva a lungo seduta immobile a guardare l'orizzonte e se ne andava senza parlare con nessuno. Ma di quel giorno non avevamo alcuna immagine utile per capire cos'era accaduto. Cercammo altre fonti, altre telecamere che inquadrassero anche solo in parte il molo, ma non c'era altro materiale utile per le indagini oltre a quello che già avevamo. Un banale incidente? Una stupida caduta? Niente altro? Quello che vedevamo era così assurdo, così privo di significato. Arrivava sempre sola, sempre alla stessa ora, vestita con molta eleganza, quasi andasse a un appuntamento galante. Guardammo i filmati per ore, per cogliere una qualsiasi sfumatura, un senso, una maledetta ragione che non fosse la fatalità. Non trovammo niente.

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Il corpo fu custodito in una cella frigorifera nel reparto di patologia forense dell'ospedale Maggiore di Trieste. Nessun nome, nessuna data se non quella del ritrovamento del corpo. “Morte accidentale”, diceva il referto del patologo che aveva rilevato la lesione alla testa senza riuscire a credere che si trattasse di uno stupido incidente. Nessuno accettava quello che era evidente. Nessuno. Non avevamo alcun indizio o qualche informazione sull'identità della ragazza. Non riuscivo a pensare ad altro che a lei: quanto sarebbe rimasta in quella cella? Quando il magistrato ne avrebbe deciso la sepoltura? Dove? Con che nome? Quale data di nascita? Stavo per impazzire!

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Una settimana dopo arrivò al comando la telefonata di un'operatrice dei servizi sociali. Ricordo che fui io a rispondere. Era una dottoressa del centro di salute mentale di Barcola, la quale mi disse che una sua paziente non si era presentata a una visita di controllo; aveva provato a cercarla più volte al telefono, ma risultava sempre spento. Dopo diversi messaggi lasciati in segreteria e nessuna risposta aveva deciso di chiamare il comando. Non aveva letto l'articolo sui quotidiani, non sapeva quello che era accaduto. Quando le raccontai i fatti, mi chiese una descrizione della ragazza trovata sul molo. Appena descrissi il viso della vittima e il colore dei suoi occhi, la dottoressa ammutolì per lunghi, interminabili secondi. “Pronto, è ancora in linea? Mi sente?” continuavo a ripeterle, fino a quando, quasi singhiozzando, con un filo di voce disse un nome e un indirizzo. Quando raccontai al comandante della telefonata, mi prese per braccio senza dire una parola, salimmo su un'auto di servizio e corremmo a sirene spiegate verso l'indirizzo che avevo scritto confusamente su un foglio di carta, quasi illeggibile tanta era la mia agitazione.

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Corremmo fino a Melara come se si trattasse di salvare una vita, come se ogni secondo fosse ancora importante. La ragazza ora aveva almeno un nome: Angela. L'appartamento era piccolo, un monolocale pulito, ordinato, alle pareti molti quadri dai colori tenui, paesaggi bellissimi, vedute della città e di Miramare, tramonti, cieli nuvolosi, alberi scossi dal vento dipinti con tecniche diverse. Sulla credenza della piccola sala da pranzo c'erano diverse foto di lei e di un uomo, forse il marito; in alcune era un militare con la mimetica, in alcune altre era in borghese, sempre insieme a lei. Quello che mi stupì fin quasi alla commozione erano un gruppo di foto di lui e lei sorridenti, abbracciati sul molo del castello di Miramare.

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Sembravano così felici, tanto da confortare in qualche modo il mio cuore e la mia testa: lei non c'era più ma era stata felice! Non so per quanto tempo, ma lo era stata nella sua vita. Non di tutti si può dire lo stesso. In un cassetto trovammo i suoi documenti. Ora avevamo il suo cognome e la sua data di nascita. Tutto il resto lo sapemmo dall'assistente sociale. La ragazza si chiamava Angela Pahor, nata il 21 marzo del 1966 e morta nel 1995. Aveva studiato all'Accademia Belle Arti di Venezia. Forse visitava le gallerie e forse era lì che l'avevo vista, anzi, ne sono sicuro, era così bella che è impossibile dimenticarla ancora oggi! Aveva insegnato per diversi anni e poi si era sposata con Davide G. militare della brigata San Marco, morto nel 1993 in missione in Somalia durante un conflitto a fuoco. La dottoressa ci raccontò che Angela non aveva mai superato la perdita di Davide, era caduta in una grave forma di depressione dalla quale non riusciva a uscire. Furono anni molto difficili, Angela era consapevole di quanto fosse stata felice e sapeva in cuor suo che tale fortuna capita una sola volta nella vita. Viveva soltanto per andare ogni settimana sul molo di Miramare, il giorno della morte del suo compagno, per gettare una rosa in mare e stare lì a guardare l'orizzonte, come se lui un giorno fosse potuto tornare da lei. Un grande amore, come quello di Carlotta e Massimiliano, dei quali aveva diverse immagini in un album, insieme alle foto di lei e Davide nel parco e nelle sale del castello. Angela credo amasse Carlotta, anche lei pittrice, guardava i quadri di lei appesi nei saloni e i quadri realizzati da lei, pensava a quelle vite, a quella felicità suprema che probabilmente aveva un prezzo. Come la sua.

Il caso venne archiviato come un incidente, vennero avvisati dei lontani parenti e il corpo venne sepolto pochi giorni dopo. Al funerale c'eravamo io e il comandante, c'era la ragazza minuta con grandi occhiali e il signore che aveva rinvenuto il corpo, l'assistente sociale e qualche parente. Anche quel giorno c'era vento, ma non bora, sembrava fosse venuto a salutare Angela, quasi a scusarsi.

Quello fu il mio primo caso, una caso apparentemente risolto ma senza una vera certezza. Fu anche l'ultimo. Qualche mese dopo lasciai la polizia e decisi di realizzare il mio sogno, la pittura. Racconto questo perché oggi ho dipinto il primo ritratto di Angela dopo 25 anni da quei fatti. Ora vivo a Venezia e insegno all'Accademia di Belle Arti. Angela aveva lasciato un segno indelebile nella mia vita senza mai averla conosciuta, come Carlotta e Massimiliano avevano lasciato un segno nelle vite di Angela e Davide. Angela aveva aperto il mio orizzonte, senza volerlo era diventata una parte importante della mia vita. Qualche mese dopo la sepoltura, acquistai dai parenti i quadri che Angela aveva in casa. Li conservo ancora oggi con grande cura. —
 

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